lunedì 19 novembre 2012


Renato Minore
 
«Vorrei quanto prima arrivare al mio finire, per poi continuare», scrive Cesare Cellini a conclusione del suo viaggio dentro la scrittura, tre giorni prima di morire. Finire e continuare… La scansione dell'azione verbale si impunta su questa contrapposizione all'apparenza insanabile. Ciò che continua non può essere finito e ciò che finisce non sembra avere molte possibilità di continuare.
      Il tempo che scandisce il "journal" è quello improvvisamente stretto, serrato, bloccato tra l'annunzio della malattia e il suo inesorabile esito. Questa consapevolezza ne dilata, però, la possibilità proprio nel momento in cui ne fissa gli argini. «Custode di questa congrua parte ditempo accordatami, una buona porzione la dedico al canto».
      Il "canto" è l'accidentato e radiante percorso psichico, letterario, "filosofico". Cellini serra un patto con il lettore appassionato, in una tersa e illuminata peregrinazione del conoscere, liberata dagli impacci della complessità e risolta nella «immediatezza del comunicare». Circola una elementarità singolare che arriva al cuore dell'espressione come del concetto per vie dirette, per un assoluto bisogno di verità e di trasparenza, nella scrittura che proietta intorno a sé l'alone e la risonanza, l'orma piena di una parola fondativa.
      In quel tempo angusto, sbriciolato, centellinato, Cellini ritma il movimento del pensiero nelle righe di un diario continuo e franto che segue il suo cursus con salti, con balzi, con riprese e con modalità circolari, con progressioni a spirali, con ritorni su se stesso. Teso al farsi di una scheggia di meditazione, di una voce, di un nome, egli trova un modo di dire folgorato dall'essenzialità.
      Che è essenzialità condotta sul triplice registro già suggerito: psicologico, letterario, filosofico. Essenzialità del racconto o del microracconto come quando compaiono nell'azione drammaturgia del diario la cocorita e il cane, presenze indimenticabili sulla scena quotidiana del poeta e, insieme, tagliate dalla luce di un simbolo trasparente, riconoscibile. Il tono della scrittura celliniana si fa sommesso e bisbiglia il suo itinerario di ricerca. Oppure, più squillante, definisce la scena di una meditazione profonda, condotta per frammenti. Ma nei frammenti non c'è dispersione, c'è una trama più sottile e va fiutata, al di là della sua erraticità. Preso dal punto di vista filosofico, Cellini risponde da poeta e preso da poeta risponde con l'interrogazione che fu di Pascal, che fu di Kierkegaard, che fu di Heidegger.
      Al lettore resta l'impressione di un alto grado di temperatura interrogativa, un enigma investito di domande.
 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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