Renato Minore
«Vorrei quanto prima arrivare al mio finire, per poi
continuare», scrive Cesare Cellini a conclusione del suo viaggio dentro la
scrittura, tre giorni prima di morire. Finire e continuare… La scansione dell'azione
verbale si impunta su questa contrapposizione all'apparenza insanabile. Ciò che
continua non può essere finito e ciò che finisce non sembra avere molte
possibilità di continuare.
Il tempo che scandisce il "journal" è quello
improvvisamente stretto, serrato, bloccato tra l'annunzio della malattia e il
suo inesorabile esito. Questa consapevolezza ne dilata, però, la possibilità proprio
nel momento in cui ne fissa gli argini. «Custode di questa congrua parte ditempo accordatami, una buona porzione la dedico al canto».
Il "canto" è l'accidentato e radiante percorso
psichico, letterario, "filosofico". Cellini serra un patto con il
lettore appassionato, in una tersa e illuminata peregrinazione del conoscere,
liberata dagli impacci della complessità e risolta nella «immediatezza del
comunicare». Circola una elementarità singolare che arriva al cuore dell'espressione
come del concetto per vie dirette, per un assoluto bisogno di verità e di
trasparenza, nella scrittura che proietta intorno a sé l'alone e la risonanza,
l'orma piena di una parola fondativa.
In quel tempo angusto, sbriciolato, centellinato, Cellini
ritma il movimento del pensiero nelle righe di un diario continuo e franto che
segue il suo cursus con salti, con balzi, con riprese e con modalità
circolari, con progressioni a spirali, con ritorni su se stesso. Teso al farsi
di una scheggia di meditazione, di una voce, di un nome, egli trova un modo di
dire folgorato dall'essenzialità.
Che è essenzialità condotta sul triplice registro già suggerito:
psicologico, letterario, filosofico. Essenzialità del racconto o del microracconto
come quando compaiono nell'azione drammaturgia del diario la cocorita e il
cane, presenze indimenticabili sulla scena quotidiana del poeta e, insieme,
tagliate dalla luce di un simbolo trasparente, riconoscibile. Il tono della
scrittura celliniana si fa sommesso e bisbiglia il suo itinerario di ricerca.
Oppure, più squillante, definisce la scena di una meditazione profonda,
condotta per frammenti. Ma nei frammenti non c'è dispersione, c'è una trama più
sottile e va fiutata, al di là della sua erraticità. Preso dal punto di vista
filosofico, Cellini risponde da poeta e preso da poeta risponde con l'interrogazione
che fu di Pascal, che fu di Kierkegaard, che fu di Heidegger.
Al lettore resta l'impressione di un alto grado di
temperatura interrogativa, un enigma investito di domande.
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