giovedì 22 novembre 2012


Nino Rapisarda

 
La parola-canto di Cesare Cellini come la divina
essenzialità della musica di Anton Webern
"Dall'estetica della forma e del contenuto all'estetica della parola"

"Sono del tutto d'accordo con Lei quando afferma:
dobbiamo convincerci che si va avanti verso l'interiorità"
Anton Webern ad Hildegard Jone
 

 

L'assoluto primato della parola dunque costituisce la cifra più sorprendente del canto di Cesare Cellini, che per tal cagione appare profondamente attuale.
      Il solare nitore che da esso promana, il mirabile manifestarsi della "profondità in superficie", lo fa accostare alla "divina essenzialità" della musica di Anton Webern.
      Il fondamento estetico che lega Webern e Cellini è costituito dalla kandiskiana "necessità interiore".
      L'ermeneutico orizzonte degli eventi annulla la distanza cronologica che intercorre tra i due e li ammanta del barbàglio della contemporaneità estetica.
      La prospettiva che il primato della parola apre supera l'antica diatriba tra estetica della forma ed estetica del contenuto.
      In Teoria Estetica Adorno analizza da par suo la questione a partire dalle inquietanti conseguenze che scaturiscono dall'alienazione dell'arte quale appare nella fatale determinazione dialettica hegeliana.
      Il problema dello statuto dell'arte dopo Hegel (problema chiave che aduggia le vie dell'estetica tra Ottocento e Novecento) è aggravato dall'ulteriore domanda posta da Adorno stesso sulla possibilità prospettica dell'arte dopo Auschwitz.
      Dice Adorno: "La mediazione dell'espressione delle opere d'arte attraverso la loro spiritualizzazione, mediazione che agli albori dell'espressionismo era presente agli esponenti più significativi di tale movimento, implica critica di quel goffo dualismo di forma ed espressione sul quale si orientò sia l'estetica tradizionale, sia anche la coscienza di alcuni artisti genuini".
      Ora, che l'espressionismo, considerato specialmente nel suo aspetto musicale, rappresenti il crocevia munifico ed ineludibile di questo crogiolo estetico è avvalorato dallo specifico ed insistito rimando di Adorno ai maestri della Seconda Scuola di Vienna.
      Con raffinato acume Adorno ravvisa in Alban Berg il maestro del "passaggio minimale", tecnica ma oltre e altro che tecnica, strutturale e funzionale ai meccanismi estetici dell'arte nel primo Novecento.
      Il "passaggio minimale" scaturisce dalle linfe sotterranee del cromatismo wagneriano, strumento sottile che scruta e dipana gli addensamenti più arcani e aggrovigliati della psiche umana ed in cui la forma si converte in contenuto ed il contenuto in forma. E in tal modo e per tal ragione le consumate e consolidate strategie dei modelli formali estetici, fondate da tempo sulla struttura della forma-sonata, vengono a dissolversi o comunque a trasformarsi radicalmente.
      L'impatto critico sotteso alla diatriba tra forma e contenuto si incunea nel gioco dei linguaggi estetici e li raduna in una ricerca unitaria. A buon diritto, Adorno richiama, all'interno della girandola fra forma e contenuto, il dinamismo della mimesi, nodo cruciale dell'emersione dell'arte in ogni tempo, ove, a suo dire, si incrociano lo spleen baudelairiano, che "salva la spontaneità del momento mimetico", e il magma soffocato e lacerato della produzione di A. Schönberg che "è mimesi che non si appiana in identità".
      La mimesi scarta l'identità, perché i percorsi dell'espressionismo sprofondano nell'interiorità. Questo fatto, nel decorso delle procedure estetiche, complica la relazione, mai per altro pienamente armonizzata, tra forma e contenuto. Il "passaggio minimale" infatti scruta ogni lieve sfumatura della "necessità interiore". Per questo non è più possibile accettare la rigida contrapposizione tra forma e contenuto.
      Asserisce ancora Adorno: "La forma è la coerenza (per quanto antagonistica e frammentaria) dei prodotti d'artificio mediante la quale ogni artefatto riuscito si separa dal puramente esistente. L'irriflesso concetto di forma, che riecheggia in tutto lo strillio del formalismo, contrappone la forma al portato, al composto, al dipinto, come organizzazione che se ne può separare.
      In tal modo essa appare al pensiero come qualcosa di imposto, di soggettivamente arbitrario, mentre essa è sostanzialmente lì dove non fa violenza al formato ma sgorga da esso... Il formato però, il contenuto, non sono oggetti esterni alla forma ma sono gli impulsi mimetici che tendono a quel mondo di immagini che è la forma. Gli innumerevoli e dannosi equivoci sul concetto di forma risalgono alla sua ubiquità che purtroppo porta a chiamare forma ogni e qualunque cosa che nell'arte vi è di artistico".
      L'avvolgente amplesso di categorie estetiche che balza dall'indagine adorniana ha nel tempo venato di costante instabilità l'evoluzione del rapporto tra forma e contenuto.
      Basti pensare quali risultanze arreca, nella grande voragine dell'espressionismo, la possibilità interpretativa, convulsa e rutilante, che scaturisce dal concetto di "... impulsi mimetici che tendono a quel mondo di immagini che è la forma".
      Da Kant in poi la ricerca estetica è segnata dai mille contorcimenti e dalle mille alchimie che la dinamica accattivante e fascinosa tra "immagine ed immaginazione" ha provocati e suscitati.
      In Kant particolarmente, prima che nella triade idealistica, e poi in Schopenhauer, il gioco tra immaginazione produttiva-schema-immagine, come ben sa chi frequenta opportunamente lo schematismo trascendentale, fa esplodere le giunture arcane della creatività artistica, poiché aggancia il mistero dell'Essere, nei suoi rimandi gnoseologico-etico-estetici, ai fondali della sua emergenza. Kant stesso precisa che il processo dinamico tra immaginazione produttiva-schema-immagine "è un'arte celata nel profondo dell'anima umana, il cui vero maneggio noi difficilmente strapperemo mai alla natura per esporlo scopertamente dinanzi agli occhi".
      Su questo problematico tramestio riflette ancora Adorno: "Tutto ciò che si manifesta nell'opera d'arte è virtualmente e con lo stesso diritto sia contenuto che forma, mentre tuttavia la forma resta ciò per cui ciò che si manifesta si determina e il contenuto resta ciò che si determina".
      Ma il sospetto che l'indagine adorniana si muova ancora all'interno della strategia dialettica costruita da Hegel costituisce grave remora per la piena comprensione, da parte del filosofo della Scuola di Francoforte, della prospettiva aperta per gli sviluppi dell'estetica dalla ricerca operata in campo musicale da Anton Webern, anche per pensare un nuovo statuto dell'arte dopo i deliri del post-moderno.
      La sintesi della ricerca di Webern si assomma nella categoria della "intensità senza estensione" il cui vero significato, non per mala grazia s'intende, sfugge all'analisi di Adorno.Per altro la genesi della "intensità senza estensione" è già nel kantiano schema trascendentale della qualità.
      Eppure, dice D. Schnebel, "solo con l'aiuto della filosofia di Hegel si può comprendere il decorso formale del tardo Webern":
      Ciò è vero, ove si consideri che la contemporaneità logico-ontologica dei momenti del sistema hegeliano, più che alla ripetitività meccanica della triade, è legata al concetto di tempo concepito come intensità acronica  che raffrena e smorza le rigide asperità della dialettica. Il concetto di tempo sotteso al sistema va ricavato da una sezione dell'opera hegeliana troppo spesso trascurata, la Filosofia della Natura. In essa Hegel definisce il divenire intuito come "l'Essere che in quanto è, non è, e in quanto non è, è". Si tratta del tempo concepito come acronica inestesa intensità che non può essere analogato rigidamente all'attimo nietzschiano dello Zarathustra che s'avvolge nelle spire dell'eterno ritorno. Il tempo come acronica inestesa intensità infatti ha in sé il crisma dell'imprevedibilità prospettica. Crisma poi da Hegel tradito nel corso delle peripezie dialettiche dello Spirito, ma che, stralciato dagli sviluppi del sistema, richiama poderosamente l'intensità misteriosa della creatività estetica che coincide con la libertà, perfettamente già intravista da Kant.
      "L'intensità senza estensione", paradigma strutturale dell'opera di Webern, non costituisce affatto il dissolvimento del tempo estetico, della musica, dell'arte.
      Nelle Sei bagatelle per quartetto d'archi, op. 9 (1913), il miracolo estetico è già compiuto: ogni nota nella sua singolarità è già un tutto, ma un tutto dinamico, è una sintesi interiorizzata dei pensieri musicali di Webern: sintesi che non si espande all'esterno, ma che si dilata dall'interno verso incommensurabili profondità. Dunque una sintesi che è e non è.
      Commenta A. Schöenberg: "Si consideri qual senso di rinuncia e di moderazione siano necessari per esprimersi con tanta concisione. Ogni sguardo può prolungarsi in una poesia, in un poema, ogni sospiro in un romanzo"..
      Dei Cinque brani per orchestra op. 10 (1913), nei quali la brevità assurge a mito di indicibile ed ineffabile comunicazione dell'essere, è stato detto con arguta impertinenza che sono finiti prima di cominciare.
      Nella realtà essi fanno parte di quella lirica assoluta che, asserisce Alban Berg, "...ha bisogno di tempo per disvelarsi perché l'inintellegibilità la protegge dalla luce prematura per non alterarne l'intima crescita".
      In Das Augenlicht op. 26 (1935) la rarefazione assoluta del tempo consente alla parola  di elevarsi, per sua stessa energia, in estranee e strane atmosfere: la parola è concepita in sé come inestesa intensità acronica al di là dei contenuti, pur ammirevoli, che essa trasmette.
      Radi esempi questi di come in Webern "l'intensità senza estensione" rappresenti davvero un momento nodale per l'estetica: infatti il turgore della creazione artistica si concentra totalmente nell'intensità come massima espansione intima della kandiskiana "necessità interiore". L'"intensità senza estensione" non è affatto somma di attimi, né attimo che concentra in sé la totalità dell'Essere, bensì essa è l'Essere che si dilata nell'interiorità misteriosa della parola.
      Non c'è inizio e non c'è fine. Imprevedibile l'inizio e imprevedibile la fine. Tutto è approdo e tutto è avvio. Come se il Wanderer schubertiano si fosse contratto in una dinamica immobilità: nella dinamica immobilità dell'Essere, come prefigurato nella benjaminiana soglia dell'attesa.
      La vita si manifesta pienamente nell'intensità acronica che è simbolo allusivo, delicato e umbratile dell'eternità, denso di interiori cosmiche risonanze, in cui l'aurora coincide col tramonto.
      Tutto è luce soffusa, smorzata, luce prematura, crisalide delicata e sfuggente che non altera, come suggerisce Alban Berg, l'intima crescita del mistero dell'essere, la sua fresca e perenne giovinezza.
      Ecco perché un sentiero altamente creativo dell'espressionismo scioglie l'urto fra forma e contenuto nella nota, nel colore, nella parola.
      Nel territorio della poesia "l'estetica della parola", teorizzata da M. Bachtin, riscopre l'uomo–persona, la sua coscienza ed apre "il dialogismo abissale della parola". Oltre i maestri del sospetto, oltre la disseminazione lacerata dell'Io come accade in Derrida e come accade in Lacan, va riscoperta e recuperata la dimensione antropologico-ontologica della persona umana.
      Afferma infatti  M. Bachtin : "La natura dialogica della coscienza, la natura dialogica della stessa vita umana. L'unica forma adeguata di espressione verbale di una vita autentica è il dialogo incompibile. La vita per sua natura è dialogica. Vivere significa partecipare ad un dialogo: interrogare, ascoltare, rispondere, consentire, etc. In questo dialogo, l'uomo partecipa tutto e con tutta la vita: con gli occhi, con le labbra, con le mani, con l'anima, con lo spirito, con tutto il corpo, con gli atti. Egli mette tutto se stesso nella parola, e questa parola entra nel tessuto dialogico della vita umana, nel simposio universale... L'uomo con voce integrale entra in un dialogo". Il dialogo incompibile muove dai fondali inesplorati dell'Essere e si spinge fino ai suoi abissi mai del tutto esplorabili: per questo è liberamente imprevedibile.
      H.R. Jauss decodifica in senso ermeneutico il significato della bachtiana "estetica della parola" e fa risaltare l'importanza della conseguente trasformazione della dialettica di forma e contenuto nella dialettica antropologica di domanda e risposta.
      H. R. Jauss sgombra subito il campo da possibili e talvolta deprecabili equivoci: "Se l'interpretazione di testi letterari non deve scadere in una arbitraria produzione  di differenze (un pericolo al quale non è sfuggita la teoria dell'intertestualità, oggi di moda in Francia, nella quale Julia Kristeva ha semplificato la dialogica di Bachtin), tanto il comprender-si nell'altro del testo quanto l'ordinario intendersi nel discorso e nella replica altrui sono ancorati ad una precomprensione di ciò che è già stato detto, compreso e fino ad allora ritenuto valido.
      La dialogica di Bachtin, inoltre, quanto più sottolinea la differenza della plurivocità tra le persone grammaticali e le istanze del discorso, tanto più sembra dare sempre già per acquisita –per quel che io posso vedere– la trasparenza della parola poetica, senza interrogarsi specificamente sulla differenza ermeneutica che corre tra l'intenzione dell'autore, il senso del testo ed il significato attribuito ogni volta dal lettore".
      E poi H.R. Jauss afferma con decisione: "In tal modo la dialettica di domanda e risposta diviene uno strumento genuinamente ermeneutico, atto al superamento dell'orizzonte proprio, all'acquisizione dell'orizzonte estraneo dell'altro e all'accoglimento del dialogo con il testo, che può tornare ancora a rispondere soltanto quando viene nuovamente interrogato... La comprensione estetica può cominciare nel punto in cui l'immaginario circonda le forme e le configurazioni del mitico con l'aura della perfezione".
      L'immaginario come flusso ininterrotto di immaginazione produttiva -schema-immagine che avvolge creativamente le forme, la cui epigenesi affonda nel mistero eterno dell'Essere, accostato alla  benjaminiana "aura della perfezione", può aleggiare nella poesia soltanto attraverso il baluginare della parola concepita come prologo ed epilogo dell'esistenza. Dal Logos archetipo dell'Essere al Logos che probabilmente chiuderà la vicenda dell'universo entropico e schiuderà l'eternità.
      E ciò, oltre ogni nominalismo, oltre l'estetismo rinsecchito e franto del post-moderno.
      Prosegue H. R. Jauss: "La parola poetica si distingue dal discorso puramente informativo o funzionale ad uno scopo, nella misura in cui il testo si scioglie dall'intenzione del suo autore e nello stesso tempo dalla limitazione pragmatica di una situazione discorsiva, raggiungendo con ciò una autonomia semantica che consente ai destinatari più tardi di aprire una prospettiva, dall'occasionalità delle situazioni liriche, sulla pienezza di significato di un mondo visto con occhi diversi".
      Infine, il "dialogismo abissale della parola" affranca l'arte dall'alienazione in cui l'aveva confinata la dialettica hegeliana e ne recupera i sensi estetico-ontologico-antropologici assolutamente necessari in questo nostro tempo definito da Heidegger "il tempo della povertà che esige i poeti arrischiati".
      Nota infatti ancora Heidegger: "Ma resta il canto che nomina la Terra. Che cos'è questo canto? In qual modo è possibile ad un mortale? Da dove proviene questo canto? Fin dove procede nell'abisso?"
      In sintonia con la musica di Webern, la poesia di Cellini è contrazione intensiva dell'essere attraverso l'assoluta emergenza della parola, contrazione infinita che miracolosamente echeggia ciò che precede il Big Bang: sprofondamento nell'abisso e salvezza dall'abisso.
      La parola-canto di Cellini non si situa al di qua o al di là del tempo cronologico. Essa incrocia l'essenzialità intensiva del tempo acronico; come in Webern, più che puntillismo essa è stratificazione interiorizzata dell'essere.
      Nell'intensità inestesa del tempo acronico vibra il respiro profondo della creazione e si snoda, sublime e solenne il libero dialogo, talora corrusco e drammatico, tra Dio e l'uomo.
      Veramente Cellini "mette tutto se stesso nella parola e questa parola entra nel tessuto dialogico della vita umana, nel simposio universale..."
      Basti pensare all'affondo sofferto che il poeta compie nei meandri più cupi della storia pur se in mirabile sintonia con la discesa nelle più intime fibre dell'interiorità psico-pneumatica.
      Oltre la parola scarnificata di senso, che come in Cèlan degrada e sprofonda nel suono disarticolato e subumano o nel silenzio cupo e sordo, la poesia di Cellini ritrova il senso sacrale della parola e del silenzio.
      Anche dopo Auschwitz.
      Con lieve, arcana profondità.
      Con la "divina essenzialità" che sgorga dalla "necessità interiore".
 

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 

 

 

 

 

 

 

 

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