Cinzia Emmi
nei frammenti di Cesare Cellini
L'opera di Cesare Cellini –che è opera poetica
e narrativa, diaristica e favolistica– è un immenso "diario", nel
senso che l'uomo-artista ha saputo trasfigurare la sua esperienza umana in
fantasma poetico, fornendovi un'espressione adeguata della vicenda privata
–espressione imprescindibile dal nucleo biografico originario, quantunque distante
da esso.
L'artista si
rappresenta dietro i volti di numerosi personaggi –quali quello del cantore, il
cui canto fa incarnare parole, quello del profeta, di Cristo della Croce, di
Giona e Giobbe, di Paolo-Saulo, del clown
e del triste Pierrot, del manichino e
di Narciso–, ed anche dietro quell'"io", quel personaggio non
protagonista ma monogonista che si esprime in prima persona e che ha voce nei
"Frammenti d'un journal
intime". Pubblicati nel 1998 per l'impegno appassionato di Sergio Collura,
i frammenti del poeta ascolano
attraversano un arco temporale abbastanza ampio –dal 25 giugno 1991 al 3 maggio
1993, sei giorni prima della scomparsa.
Vita e morte è
l'endiadi che balza immediatamente alla mente di chi legge i Frammenti: un uomo che è anche un
artista va incontro alla morte tentando di varcare il velo che separa
l'esistenza dal non essere, "di oltrepassare la soglia della morte senza
paura"[1], come Cellini stesso scrive in un pensiero del
12 settembre 1992, e ancora sommessamente ritiene: "ciò alimenta il mio
tormento, il continuo chiedermi se esiste un presente oltre il futuro e a cosa
o a chi vado incontro, quando questa mia malattia, perduto ogni interesse per
me, mi abbandonerà"[2].
Da queste riflessioni trapela il dilemma sul futuro oltremondano, e
come il poeta sia assalito da quell'angoscia e quel dubbio, che egli tenta di
confutare attraverso la ricerca di una risposta univoca. Eppure, non lasci
perplessi il dubbio sull'esistenza divina, in quanto questo va considerato come
parte integrante dell'inquietudine e dell'angoscia di tipo kierkegaardiane,
ossia della dimensione di imprevedibilità del sentiero scosceso della fede. Il
percorso del cristiano è un continuo divenire, non è un sentiero fiorito, ma
impervio, pietroso; e la realizzazione completa della certezza della fede è una
conquista, cui si giunge dopo una dialettica interiore nella quale si vive e si
soffre la crisi del finito, e si vince la tentazione della ragione che tende a
semplificare, a schematizzare –la fede è slancio e deduzione.
Sgomento primigenio è
quello del puer che viene alla vita,
e "sgomento nel cuore"[3] è quello dell'uomo che sa di dover morire –in
senso possibilistico sempre, in ogni istante–, ma credo sia ancora maggiore lo
strazio per chi sa che gli attimi allo squillo della propria ora sono già
contati e non sono certo quelli di un Faust, poiché Cellini è l'antagonista
dell'eroe ottocentesco. Da qui l'esigenza di abbandonarsi al sogno, di voler
riattingere la condizione in cui si può "fluttuare liberi nelle acque
primordiali senza la paura e le costrizioni del tempo", come si legge nel frammento del 12 gennaio 1993[4].
Un uomo così
percettivo ed un poeta così compenetrato della purezza d'animo, della
sensibilità profonda del fanciullo e della verità di chi ha già troppo vissuto
–puro e maturo ad un tempo– non poteva certo rimpiangere di dover andare
incontro all'"Oltre", riconoscendoLo già nell'oggi vitale; così
Cellini prefigura lo slancio –insieme sicuro e titubante– verso questa nuova
dimensione, come esordisce nel
frammento del 12 settembre 1992: "vinto dall'ansia, dal desiderio di un
possibili Oltre"[5].
In tal modo la
possibilità dell'esistenza dell'"Oltre" diventa quasi certezza o l'unica
via con la quale con-fondersi, ed essa si completa con lo stupore in cui
affondano le radici del vivente; parallelamente, queste riflessioni sfociano in
Sulla via di Damasco –poesia
conclusiva di Transenne composta
nello stesso periodo, in cui si presentifica l'esperienza del divino. Il poeta
scrive: "Silenzioso / il silenzio / s'incrinò / Gli umori / si fecero /
intensi / e l'Oltre / improvviso / cessò / d'essere / oltre"[6]
Il silenzio con cui
l'essere alla ricerca del divino si confronta assume la forma della conoscenza,
e rende comprensibile il "valore o significato"[7] della propria esistenza Il candore del poeta
fanciullo, evidenziato nell'antitesi astuzia/ingenuità del pensiero del 10
ottobre 1991[8], risplende nel suo amore per la giustizia e
per la realizzazione di una pace edenica come speranza della fine del male e
come conseguente redenzione degli uomini della guerra. Questo sentire si
rispecchia in quei pensieri dove si manifesta l'opposizione al totalitarismo,
alla guerra e ai «molti Cesari in
giro, in Occidente»[9], agli astuti ed agli ipocriti interessati ad
ottenere il loro vile scopo, poiché il poeta si sente afflitto per vivere –come
si legge nel pensiero del 19 gennaio 1993– in "un tempo sempre orfano,
scandito da nascite e morti, da guerre e paci, da felicità improvvise e da
dolori covati nel silenzio o nell'urlo della disperazione"[10].
L'autore sente vivida
la distinzione tra il ricco Occidente e la drammatica condizione in cui versa
il Terzo Mondo, e soprattutto la individua come contrasto tra opportunismo,
egoismo, crudeltà, incomprensione e povertà, fame, sofferenza, dolore, tristezza,
morte. Isolato nel suo settore figura l'Occidente, ossia la schiera dei paesi
capitalistici che si scavano attorno una trincea di solitudine e di
indifferenza, lontani da Dio e procacciatori di guerre, come si registra nel frammento del 20 aprile 1992:
"L'Occidente è ammalato di solitudine. Pensa ed agisce come se nulla esistesse
intorno a sé, come se il resto del mondo gli fosse nemico. Vinto dalla paura,
trova nell'aggressione economica la sua difesa e fa vittime ovunque,
imprigionando la vita e Dio e quanto trova sul suo cammino"[11].
L'indagine nel mondo
della sofferenza procede su due versanti: quello degli umili evangelici,
impersonati nella società contemporanea dagli abitanti del Terzo Mondo, ai
quali il giovane poeta augura una nuova alba in cui possano splendere –come si
legge in Sogno di pace– l'arcobaleno
"nuovi colori / l'armonia delle lingue / la parità dei diritti / la
libertà di natura / l'antica vocazione ad amare"[12], e quello personale, in particolare affrontato
nel rapporto malattia/mortalità, in modo da discernere a pieno il senso profondo
dell'esistere. Il 12 settembre 1992,
l 'artista scrive ancora: "da quando sono tornato
dall'ospedale non faccio che indagare, mettere in discussione me stesso e le verità
acquisite. Come i cani abbandonati, che ripassano l'intera città pur di trovare
un avanzo […], anche io non faccio che rimestare le carte dei filosofi per
assicurarmi quel tanto di vero per la mente, che mi permetta di oltrepassare la
soglia della morte senza paura […] quando questa mia malattia, perduto ogni
interesse per me, mi abbandonerà: misero avanzo di un pasto consumato troppo in
fretta"[13].
Nei giorni in cui il
corpo perde la sua forza, si indebolisce al ritmo devastante della malattia, Cellini
vive nella lotta contro di essa fino alla strenua resa, fino a quando sarà
trasformato in un "misero avanzo", cercando di penetrare il mistero
della vita e di trovare la prova probante di fronte all'imprevedibile varco.
L'uomo ed il poeta scelgono la via dell'obbedienza cristologica e mariana, dell'abbandono
al volere divino, lasciando che il dolore si tramuti nella comprensione del
vero; e, nel pensiero del 18 gennaio 1993, si legge: "mi sono fatto
obbediente. La mia, è un'agonia di amore e di conoscenza, di Dio e di futuro"[14].
Alternando pensieri di
intenso dubbio e drammaticità ad altri in cui traspare il distacco dalle tensioni
del momento, come se il suo soffrire si fosse sublimato e lo avesse trasportato
nel regno della chiarezza e della maturità, il poeta giunge alla conclusione
che la forza della Parola –che è poi sintetizzabile nell'unica Parola che è Dio
di cui ogni altra emissione è emanazione– risiede nella chiarezza, nella
linearità, nel nitore espressivo di leopardiana memoria, come risalta dal
pensiero del 5 novembre 1992: "ma se è vero che l'arte racchiude in sé una
qualche verità, se è vero che possiede in sé il valore dell'educare ed è valore
essa stessa, io credo che la condizione indispensabile sia la chiarezza formale
e la semplicità concettuale che la rendono accessibile a tutti, anche agli
ignoranti"[15].
L'esperienza creativa
attraverso cui si realizza l'opera poetica viene concepita come luogo privilegiato
in cui portare a compimento il proprio amore per la vita, per gli altri e per
le cose, in cui diffondere la
Parola , e attraverso cui lanciare la sfida della possibilità
di concludere il sogno di pace universale. Nel frammento del 12 ottobre 1992 Cellini palesa la consapevolezza di
questa sua concezione, e scrive: "nella mia vita non ho conosciuto amanti
più grandi dei poeti, che soffrono e cantano e sgranano gli occhi per comporre,
insieme, al di là dei secoli, un inno alla vita"[16].
Il ruolo del poeta diviene tramite e passaparola dell'amore universale
e incondizionato, passando attraverso l'enclave della sofferenza patita per gli
altri, e divenendone lui stesso e la sua Parola espressione totale. L'Arte per
Cellini racchiude in sé questo nucleo di verità, che la accosta alla Parola
divina e che rende significato all'atto poetico, dandogli diverse funzioni:
educativa, istruttiva, pedagogica. All'insidia dei tanti perché che affollano
la mente del poeta e rendono ansiosa la
voglia di conoscenza fino allo spasimo, l'Arte e soprattutto il canto lo aprono alla pienezza della vita
–francescanamente sentita–, e gli restituiscono parte del senso
esistenziale: "che cosa mi resta, dunque, da fare, se non voglio
impazzire? Nulla. Non mi resta da fare proprio nulla, se non cantare: un canto
povero e solitario, come povera e solitaria rimane la voglia di amare. Sí,
cantare: perché attraverso il canto avverto il senso del mutamento; percorro un
cammino, anche se il luogo verso il quale è diretto sfugge al mio sapere:
appartiene al sogno, all'Utopia"[17].
Il più drammatico e
commosso tra tutti i frammenti è, a
mio avviso, quello dall'incipit
"Da quando ho saputo che mi restavano pochi mesi da vivere…"[18], scritto nel Natale 1992 –l'ultimo vissuto dal
poeta–, in cui egli intesse un lungo monologo interiore. Cellini svela la
necessità di poter riuscire a conoscere le cose della vita e di poter
comprendere la giustezza del proprio passato e del proprio operato. Il giovane
si prepara serenamente all'attimo più importante dell'esistenza –la propria
morte: egli scopre il "privilegio"[19] e la "grazia"[20] di sapere il suo momento mortale, il tempo rimastogli,
le ore cui accordare il valore che meritano, e scrive: "conoscere il quando
della mia morte, mi ha liberato dalla paura che potesse giungermi nel momento
meno propizio […]. Adesso ho tutto il tempo per prepararmi all'incontro. Vivo,
infatti, l'attesa della morte come riconciliazione"[21].
Cercare di discernere
come si sia vissuto e capire che le cose fatte siano state quelle giuste, mentre
quelle che rimangono ancora saranno la giusta scelta "fra mille"[22], in modo da considerare quello che resta come
un dono: questo è quello che il poeta spera di fronte all'incalzante
avvicinarsi dell'"ombra / della gelida morte"[23]. Il giovane poeta non sarà mai un impreparato
"re che muore" di Ionesco, ma un saggio "custode […] di questa
congrua parte di tempo"[24] accordatagli, di questo dono che egli ha
saputo tramutare in Parola vitale. Nel punto dello spazio e del tempo in cui
Cellini si trova nel Natale 1992,
l 'istante si dilata per divenire eternità, e soprattutto
attraverso l'azione demiurgica dell'Arte egli riesce a demolire il dubbio ed a
far sí che il canto si tramuti in Parola e che questa trasformi –in una concatenazione
inscindibile verso la trascendenza– "il tempo in eternità; il dolore in
gioia interiore; la bruttezza e l'empietà, in bellezza e gioia per i sensi e l'anima"[25].
Ormai sembra che il
dubbio si sia sciolto nella certezza del domani, di quell'alba auspicata tanto
tempo prima, poiché –come egli registra qualche giorno precedente la morte–
"vorrei però quanto prima arrivare al mio finire, per poi continuare"[26]. Vita e morte si uniscono in un nesso
inseparabile: oltre la vita e dopo la morte egli comprende di poter
"continuare" a vivere, di poter essere
in una diversa forma. Al riguardo, risulta parallela la conclusione del
pensiero scritto nel Natale 1992,
in cui si prefigura una piena risurrezione prima
dell'anima, e poi del corpo e dell'anima nello stato post-apocalittico:
"io volgo un pensiero, che è quasi un canto, a quel piccolo spazio che
ospiterà il mio corpo, e che sarà unico testimone del mio disfacimento; unico
custode, unico arrendevole amore, paziente di attendere il grande ritorno. Mi
conforta pensare che quando la parte di tempo, oltre quella accordatami,
finirà, questo piccolo spazio saprà restituirmi intero alla vita; e gioirà con
me, dimenticando di avermi atteso a lungo"[27].
Proprio per queste
ragioni profondamente credute e acquisite, l'autore è pienamente consapevole di
non poter tacere la scoperta della parola vera, della parola che salva[28] e che aiuta gli altri, come scrive l'otto febbraio
1993: "non possiamo ancora restare in silenzio: occorre agire, farsi uno
con gli altri, essere parola"[29]. Oltre il tempo, oltre la sofferenza corporea
esiste un mistero insondabile che solo la Parola rivelata e la Poesia riescono a svelare,
superando il contingente dell'esistenza: "non v'è nulla al mondo che mi
soddisfi se non la Poesia.
In essa colgo il mistero di me stesso (il "Chi
sono") e il mistero di Dio (il "Chi è"). E i due misteri, uniti
nella Parola –nella Poesia cioè– diventano tutt'uno: capacità creativa,
nonostante il tempo e la morte"[30].
Secondo un principio
di matrice ungarettiana, ricordato nel saggio Il soffio della vita/parola di Giuseppe Savoca[31], Cesare Cellini –scavando nell'universo della
Parola grazie alla luce perfetta della Rivelazione– ha saputo scegliere e
comprendere, ed ha insegnato a tutti. Se la vita è passaggio, attraversamento per
andare nell'"Oltre", la sofferenza del poeta è valsa come monito per
saper essere "custodi" del proprio tempo. L'esperienza di vita di
Cesare Cellini fa sí che passato e presente si coagulino nella saldezza della
scrittura e nella lettura di un eterno presente donato –attraverso la sua Parola–
agli altri e a Dio.
[1] C. Cellini, Frammenti d’un journal
intime, prefazione di R. Minore,
a cura di S. Collura, Tifeo,
Catania 1998, p. 13.
[2] Ibidem.
[3] C. Cellini, 22 gennaio 1993, in ivi, p. 13.
[4] Ivi,
p. 19.
[5] Ivi,
p. 13.
[6] C. Cellini, Sulla via di Damasco,
in Transenne, Tifeo, Catania 1996, p. 59.
[7] C. Cellini, 18 gennaio 1993, in Frammenti d’un journal intime, cit.,
p.21.
[8] Ivi,
p. 10.
[9] C. Cellini, Natale 1991, in ivi, p. 11.
[10] Ivi,
p. 21.
[11] Ivi,
p. 12.
[12] C. Cellini, Sogno di pace, in Neacromata,
Tifeo, Catania 1995, p. 37.
[13] C. Cellini, Frammenti d’un journal
intime, cit., p. 13.
[14] Ivi,
p. 21.
[15] Ivi,
p. 15.
[16] Ivi,
p. 14.
[17] C. Cellini, 12 febbraio 1993, in ivi, p. 27.
[18] Ivi,
pp. 16-18.
[19] Ivi,
p. 16.
[20] Ibidem.
[21] Ibidem.
[22] Ibidem.
[23] G. Leopardi, Ultimo canto di Saffo,
vv. 67-68, in
Canti, a cura di G. e D. De
Robertis, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1987, p. 138.
[24] C. Cellini, Ftrammenti d’un journal
intime, cit., p. 16.
[25] Ivi,
p. 17.
[26] Ivi,
p. 32.
[27] Ivi,
p. 18.
[28] Nel
frammento scritto durante il giorno di Pasqua del 1993, si legge: «ritengo la Poesia , la “parola
dell’uomo”, e riconosco ad essa la stessa dignità della “parola di Dio”:
ambedue salvano» (in ivi, p. 31).
[29] Ivi.
p. 25.
[30] C. Cellini, 5 aprile 1993, in ivi, p. 30.
[31] Il
critico scrive: «un poeta intimamente ungarettiano qual è Cellini. E dico
questo senza alludere a niente di scolastico e di appreso dai libri, bensì a
quella matrice ideale di scavo della parola nell’abisso della vita e della
morte rappresentata nel nostro Novecento dal poeta dell’Allegria e del Dolore (G. Savoca, Il soffio della
vita/parola, in Appendice. Testimonianze critiche ed umane, in ivi,
p. 69.
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