venerdì 23 novembre 2012


Cinzia Emmi

 
Forza della "parola" e "oltre"
nei frammenti di Cesare Cellini
 
 

L'opera di Cesare Cellini –che è opera poetica e narrativa, diaristica e favolistica– è un immenso "diario", nel senso che l'uomo-artista ha saputo trasfigurare la sua esperienza umana in fantasma poetico, fornendovi un'espressione adeguata della vicenda privata –espressione imprescindibile dal nucleo biografico originario, quantunque distante da esso.
      L'artista si rappresenta dietro i volti di numerosi personaggi –quali quello del cantore, il cui canto fa incarnare parole, quello del profeta, di Cristo della Croce, di Giona e Giobbe, di Paolo-Saulo, del clown e del triste Pierrot, del manichino e di Narciso–, ed anche dietro quell'"io", quel personaggio non protagonista ma monogonista che si esprime in prima persona e che ha voce nei "Frammenti d'un journal intime". Pubblicati nel 1998 per l'impegno appassionato di Sergio Collura, i frammenti del poeta ascolano attraversano un arco temporale abbastanza ampio –dal 25 giugno 1991 al 3 maggio 1993, sei giorni prima della scomparsa.
      Vita e morte è l'endiadi che balza immediatamente alla mente di chi legge i Frammenti: un uomo che è anche un artista va incontro alla morte tentando di varcare il velo che separa l'esistenza dal non essere, "di oltrepassare la soglia della morte senza paura"[1], come Cellini stesso scrive in un pensiero del 12 settembre 1992, e ancora sommessamente ritiene: "ciò alimenta il mio tormento, il continuo chiedermi se esiste un presente oltre il futuro e a cosa o a chi vado incontro, quando questa mia malattia, perduto ogni interesse per me, mi abbandonerà"[2].
      Da queste riflessioni trapela il dilemma sul futuro oltremondano, e come il poeta sia assalito da quell'angoscia e quel dubbio, che egli tenta di confutare attraverso la ricerca di una risposta univoca. Eppure, non lasci perplessi il dubbio sull'esistenza divina, in quanto questo va considerato come parte integrante dell'inquietudine e dell'angoscia di tipo kierkegaardiane, ossia della dimensione di imprevedibilità del sentiero scosceso della fede. Il percorso del cristiano è un continuo divenire, non è un sentiero fiorito, ma impervio, pietroso; e la realizzazione completa della certezza della fede è una conquista, cui si giunge dopo una dialettica interiore nella quale si vive e si soffre la crisi del finito, e si vince la tentazione della ragione che tende a semplificare, a schematizzare –la fede è slancio e deduzione.
      Sgomento primigenio è quello del puer che viene alla vita, e "sgomento nel cuore"[3] è quello dell'uomo che sa di dover morire –in senso possibilistico sempre, in ogni istante–, ma credo sia ancora maggiore lo strazio per chi sa che gli attimi allo squillo della propria ora sono già contati e non sono certo quelli di un Faust, poiché Cellini è l'antagonista dell'eroe ottocentesco. Da qui l'esigenza di abbandonarsi al sogno, di voler riattingere la condizione in cui si può "fluttuare liberi nelle acque primordiali senza la paura e le costrizioni del tempo", come si legge nel frammento del 12 gennaio 1993[4].
      Un uomo così percettivo ed un poeta così compenetrato della purezza d'animo, della sensibilità profonda del fanciullo e della verità di chi ha già troppo vissuto –puro e maturo ad un tempo– non poteva certo rimpiangere di dover andare incontro all'"Oltre", riconoscendoLo già nell'oggi vitale; così Cellini prefigura lo slancio –insieme sicuro e titubante– verso questa nuova dimensione, come esordisce nel frammento del 12 settembre 1992: "vinto dall'ansia, dal desiderio di un possibili Oltre"[5].
      In tal modo la possibilità dell'esistenza dell'"Oltre" diventa quasi certezza o l'unica via con la quale con-fondersi, ed essa si completa con lo stupore in cui affondano le radici del vivente; parallelamente, queste riflessioni sfociano in Sulla via di Damasco –poesia conclusiva di Transenne composta nello stesso periodo, in cui si presentifica l'esperienza del divino. Il poeta scrive: "Silenzioso / il silenzio / s'incrinò / Gli umori / si fecero / intensi / e l'Oltre / improvviso / cessò / d'essere / oltre"[6]
      Il silenzio con cui l'essere alla ricerca del divino si confronta assume la forma della conoscenza, e rende comprensibile il "valore o significato"[7] della propria esistenza Il candore del poeta fanciullo, evidenziato nell'antitesi astuzia/ingenuità del pensiero del 10 ottobre 1991[8], risplende nel suo amore per la giustizia e per la realizzazione di una pace edenica come speranza della fine del male e come conseguente redenzione degli uomini della guerra. Questo sentire si rispecchia in quei pensieri dove si manifesta l'opposizione al totalitarismo, alla guerra e ai «molti Cesari in giro, in Occidente»[9], agli astuti ed agli ipocriti interessati ad ottenere il loro vile scopo, poiché il poeta si sente afflitto per vivere –come si legge nel pensiero del 19 gennaio 1993– in "un tempo sempre orfano, scandito da nascite e morti, da guerre e paci, da felicità improvvise e da dolori covati nel silenzio o nell'urlo della disperazione"[10].
      L'autore sente vivida la distinzione tra il ricco Occidente e la drammatica condizione in cui versa il Terzo Mondo, e soprattutto la individua come contrasto tra opportunismo, egoismo, crudeltà, incomprensione e povertà, fame, sofferenza, dolore, tristezza, morte. Isolato nel suo settore figura l'Occidente, ossia la schiera dei paesi capitalistici che si scavano attorno una trincea di solitudine e di indifferenza, lontani da Dio e procacciatori di guerre, come si registra nel frammento del 20 aprile 1992: "L'Occidente è ammalato di solitudine. Pensa ed agisce come se nulla esistesse intorno a sé, come se il resto del mondo gli fosse nemico. Vinto dalla paura, trova nell'aggressione economica la sua difesa e fa vittime ovunque, imprigionando la vita e Dio e quanto trova sul suo cammino"[11].
      L'indagine nel mondo della sofferenza procede su due versanti: quello degli umili evangelici, impersonati nella società contemporanea dagli abitanti del Terzo Mondo, ai quali il giovane poeta augura una nuova alba in cui possano splendere –come si legge in Sogno di pace– l'arcobaleno "nuovi colori / l'armonia delle lingue / la parità dei diritti / la libertà di natura / l'antica vocazione ad amare"[12], e quello personale, in particolare affrontato nel rapporto malattia/mortalità, in modo da discernere a pieno il senso profondo dell'esistere. Il 12 settembre 1992, l'artista scrive ancora: "da quando sono tornato dall'ospedale non faccio che indagare, mettere in discussione me stesso e le verità acquisite. Come i cani abbandonati, che ripassano l'intera città pur di trovare un avanzo […], anche io non faccio che rimestare le carte dei filosofi per assicurarmi quel tanto di vero per la mente, che mi permetta di oltrepassare la soglia della morte senza paura […] quando questa mia malattia, perduto ogni interesse per me, mi abbandonerà: misero avanzo di un pasto consumato troppo in fretta"[13].
      Nei giorni in cui il corpo perde la sua forza, si indebolisce al ritmo devastante della malattia, Cellini vive nella lotta contro di essa fino alla strenua resa, fino a quando sarà trasformato in un "misero avanzo", cercando di penetrare il mistero della vita e di trovare la prova probante di fronte all'imprevedibile varco. L'uomo ed il poeta scelgono la via dell'obbedienza cristologica e mariana, dell'abbandono al volere divino, lasciando che il dolore si tramuti nella comprensione del vero; e, nel pensiero del 18 gennaio 1993, si legge: "mi sono fatto obbediente. La mia, è un'agonia di amore e di conoscenza, di Dio e di futuro"[14].
      Alternando pensieri di intenso dubbio e drammaticità ad altri in cui traspare il distacco dalle tensioni del momento, come se il suo soffrire si fosse sublimato e lo avesse trasportato nel regno della chiarezza e della maturità, il poeta giunge alla conclusione che la forza della Parola –che è poi sintetizzabile nell'unica Parola che è Dio di cui ogni altra emissione è emanazione– risiede nella chiarezza, nella linearità, nel nitore espressivo di leopardiana memoria, come risalta dal pensiero del 5 novembre 1992: "ma se è vero che l'arte racchiude in sé una qualche verità, se è vero che possiede in sé il valore dell'educare ed è valore essa stessa, io credo che la condizione indispensabile sia la chiarezza formale e la semplicità concettuale che la rendono accessibile a tutti, anche agli ignoranti"[15].
      L'esperienza creativa attraverso cui si realizza l'opera poetica viene concepita come luogo privilegiato in cui portare a compimento il proprio amore per la vita, per gli altri e per le cose, in cui diffondere la Parola, e attraverso cui lanciare la sfida della possibilità di concludere il sogno di pace universale. Nel frammento del 12 ottobre 1992 Cellini palesa la consapevolezza di questa sua concezione, e scrive: "nella mia vita non ho conosciuto amanti più grandi dei poeti, che soffrono e cantano e sgranano gli occhi per comporre, insieme, al di là dei secoli, un inno alla vita"[16].
      Il ruolo del poeta diviene tramite e passaparola dell'amore universale e incondizionato, passando attraverso l'enclave della sofferenza patita per gli altri, e divenendone lui stesso e la sua Parola espressione totale. L'Arte per Cellini racchiude in sé questo nucleo di verità, che la accosta alla Parola divina e che rende significato all'atto poetico, dandogli diverse funzioni: educativa, istruttiva, pedagogica. All'insidia dei tanti perché che affollano la mente del poeta e rendono ansiosa la voglia di conoscenza fino allo spasimo, l'Arte e soprattutto il canto lo aprono alla pienezza della vita –francescanamente sentita–, e gli restituiscono parte del senso esistenziale: "che cosa mi resta, dunque, da fare, se non voglio impazzire? Nulla. Non mi resta da fare proprio nulla, se non cantare: un canto povero e solitario, come povera e solitaria rimane la voglia di amare. Sí, cantare: perché attraverso il canto avverto il senso del mutamento; percorro un cammino, anche se il luogo verso il quale è diretto sfugge al mio sapere: appartiene al sogno, all'Utopia"[17].
      Il più drammatico e commosso tra tutti i frammenti è, a mio avviso, quello dall'incipit "Da quando ho saputo che mi restavano pochi mesi da vivere…"[18], scritto nel Natale 1992 –l'ultimo vissuto dal poeta–, in cui egli intesse un lungo monologo interiore. Cellini svela la necessità di poter riuscire a conoscere le cose della vita e di poter comprendere la giustezza del proprio passato e del proprio operato. Il giovane si prepara serenamente all'attimo più importante dell'esistenza –la propria morte: egli scopre il "privilegio"[19] e la "grazia"[20] di sapere il suo momento mortale, il tempo rimastogli, le ore cui accordare il valore che meritano, e scrive: "conoscere il quando della mia morte, mi ha liberato dalla paura che potesse giungermi nel momento meno propizio […]. Adesso ho tutto il tempo per prepararmi all'incontro. Vivo, infatti, l'attesa della morte come riconciliazione"[21].
      Cercare di discernere come si sia vissuto e capire che le cose fatte siano state quelle giuste, mentre quelle che rimangono ancora saranno la giusta scelta "fra mille"[22], in modo da considerare quello che resta come un dono: questo è quello che il poeta spera di fronte all'incalzante avvicinarsi dell'"ombra / della gelida morte"[23]. Il giovane poeta non sarà mai un impreparato "re che muore" di Ionesco, ma un saggio "custode […] di questa congrua parte di tempo"[24] accordatagli, di questo dono che egli ha saputo tramutare in Parola vitale. Nel punto dello spazio e del tempo in cui Cellini si trova nel Natale 1992, l'istante si dilata per divenire eternità, e soprattutto attraverso l'azione demiurgica dell'Arte egli riesce a demolire il dubbio ed a far sí che il canto si tramuti in Parola e che questa trasformi –in una concatenazione inscindibile verso la trascendenza– "il tempo in eternità; il dolore in gioia interiore; la bruttezza e l'empietà, in bellezza e gioia per i sensi e l'anima"[25].
      Ormai sembra che il dubbio si sia sciolto nella certezza del domani, di quell'alba auspicata tanto tempo prima, poiché –come egli registra qualche giorno precedente la morte– "vorrei però quanto prima arrivare al mio finire, per poi continuare"[26]. Vita e morte si uniscono in un nesso inseparabile: oltre la vita e dopo la morte egli comprende di poter "continuare" a vivere, di poter essere in una diversa forma. Al riguardo, risulta parallela la conclusione del pensiero scritto nel Natale 1992, in cui si prefigura una piena risurrezione prima dell'anima, e poi del corpo e dell'anima nello stato post-apocalittico: "io volgo un pensiero, che è quasi un canto, a quel piccolo spazio che ospiterà il mio corpo, e che sarà unico testimone del mio disfacimento; unico custode, unico arrendevole amore, paziente di attendere il grande ritorno. Mi conforta pensare che quando la parte di tempo, oltre quella accordatami, finirà, questo piccolo spazio saprà restituirmi intero alla vita; e gioirà con me, dimenticando di avermi atteso a lungo"[27].
      Proprio per queste ragioni profondamente credute e acquisite, l'autore è pienamente consapevole di non poter tacere la scoperta della parola vera, della parola che salva[28] e che aiuta gli altri, come scrive l'otto febbraio 1993: "non possiamo ancora restare in silenzio: occorre agire, farsi uno con gli altri, essere parola"[29]. Oltre il tempo, oltre la sofferenza corporea esiste un mistero insondabile che solo la Parola rivelata e la Poesia riescono a svelare, superando il contingente dell'esistenza: "non v'è nulla al mondo che mi soddisfi se non la Poesia. In essa colgo il mistero di me stesso (il "Chi sono") e il mistero di Dio (il "Chi è"). E i due misteri, uniti nella Parola –nella Poesia cioè– diventano tutt'uno: capacità creativa, nonostante il tempo e la morte"[30].
      Secondo un principio di matrice ungarettiana, ricordato nel saggio Il soffio della vita/parola di Giuseppe Savoca[31], Cesare Cellini –scavando nell'universo della Parola grazie alla luce perfetta della Rivelazione– ha saputo scegliere e comprendere, ed ha insegnato a tutti. Se la vita è passaggio, attraversamento per andare nell'"Oltre", la sofferenza del poeta è valsa come monito per saper essere "custodi" del proprio tempo. L'esperienza di vita di Cesare Cellini fa sí che passato e presente si coagulino nella saldezza della scrittura e nella lettura di un eterno presente donato –attraverso la sua Parola– agli altri e a Dio.
 


[1] C. Cellini, Frammenti d’un journal intime, prefazione di R. Minore, a cura di S. Collura, Tifeo, Catania 1998, p. 13.
[2] Ibidem.
[3] C. Cellini, 22 gennaio 1993, in ivi, p. 13.
[4] Ivi, p. 19.
[5] Ivi, p. 13.
[6] C. Cellini, Sulla via di Damasco, in Transenne, Tifeo, Catania 1996, p. 59.
[7] C. Cellini, 18 gennaio 1993, in Frammenti d’un journal intime, cit., p.21.
[8] Ivi, p. 10.
[9] C. Cellini, Natale 1991, in ivi, p. 11.
[10] Ivi, p. 21.
[11] Ivi, p. 12.
[12] C. Cellini, Sogno di pace, in Neacromata, Tifeo, Catania 1995, p. 37.
[13] C. Cellini, Frammenti d’un journal intime, cit., p. 13.
[14] Ivi, p. 21.
[15] Ivi, p. 15.
[16] Ivi, p. 14.
[17] C. Cellini, 12 febbraio 1993, in ivi, p. 27.
[18] Ivi, pp. 16-18.
[19] Ivi, p. 16.
[20] Ibidem.
[21] Ibidem.
[22] Ibidem.
[23] G. Leopardi, Ultimo canto di Saffo, vv. 67-68, in Canti, a cura di G. e D. De Robertis, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1987, p. 138.
[24] C. Cellini, Ftrammenti d’un journal intime, cit., p. 16.
[25] Ivi, p. 17.
[26] Ivi, p. 32.
[27] Ivi, p. 18.
[28] Nel frammento scritto durante il giorno di Pasqua del 1993, si legge: «ritengo la Poesia, la “parola dell’uomo”, e riconosco ad essa la stessa dignità della “parola di Dio”: ambedue salvano» (in ivi, p. 31).
[29] Ivi. p. 25.
[30] C. Cellini, 5 aprile 1993, in ivi, p. 30.
[31] Il critico scrive: «un poeta intimamente ungarettiano qual è Cellini. E dico questo senza alludere a niente di scolastico e di appreso dai libri, bensì a quella matrice ideale di scavo della parola nell’abisso della vita e della morte rappresentata nel nostro Novecento dal poeta dell’Allegria e del Dolore (G. Savoca, Il soffio della vita/parola, in Appendice. Testimonianze critiche ed umane, in ivi, p. 69.

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