Nino Rapisarda
La parola-canto di Cesare Cellini come la divina
essenzialità della musica di Anton Webern
"Dall'estetica della
forma e del contenuto all'estetica della parola"
"Sono del tutto d'accordo con Lei quando afferma:
dobbiamo convincerci che si va avanti verso l'interiorità"
Anton Webern ad Hildegard Jone
L'assoluto primato
della parola dunque costituisce la cifra più sorprendente del canto di Cesare
Cellini, che per tal cagione appare profondamente attuale.
Il solare nitore che
da esso promana, il mirabile manifestarsi della "profondità in
superficie", lo fa accostare alla "divina essenzialità" della
musica di Anton Webern.
Il fondamento
estetico che lega Webern e Cellini è costituito dalla kandiskiana
"necessità interiore".
L'ermeneutico
orizzonte degli eventi annulla la distanza cronologica che intercorre tra i due e li
ammanta del barbàglio della contemporaneità estetica.
La prospettiva che
il primato della parola apre supera l'antica diatriba tra estetica della forma
ed estetica del contenuto.
In Teoria Estetica Adorno
analizza da par suo la questione a partire dalle inquietanti conseguenze che
scaturiscono dall'alienazione dell'arte quale appare nella fatale determinazione
dialettica hegeliana.
Il problema dello
statuto dell'arte dopo Hegel (problema chiave che aduggia le vie dell'estetica
tra Ottocento e Novecento) è aggravato dall'ulteriore domanda posta da Adorno
stesso sulla possibilità prospettica dell'arte dopo Auschwitz.
Dice Adorno:
"La mediazione dell'espressione delle opere d'arte attraverso la loro
spiritualizzazione, mediazione che agli albori dell'espressionismo era presente
agli esponenti più significativi di tale movimento, implica critica di quel
goffo dualismo di forma ed espressione sul quale si orientò sia l'estetica tradizionale,
sia anche la coscienza di alcuni artisti genuini".
Ora, che
l'espressionismo, considerato specialmente nel suo aspetto musicale, rappresenti
il crocevia munifico ed ineludibile di questo crogiolo estetico è avvalorato
dallo specifico ed insistito rimando di Adorno ai maestri della Seconda Scuola
di Vienna.
Con raffinato acume
Adorno ravvisa in Alban Berg il maestro del "passaggio minimale",
tecnica ma oltre e altro che tecnica, strutturale e funzionale ai meccanismi
estetici dell'arte nel primo Novecento.
Il "passaggio
minimale" scaturisce dalle linfe sotterranee del cromatismo wagneriano,
strumento sottile che scruta e dipana gli addensamenti più arcani e aggrovigliati
della psiche umana ed in cui la forma si converte in contenuto ed il contenuto
in forma. E in tal modo e per tal ragione le consumate e consolidate strategie
dei modelli formali estetici, fondate da tempo sulla struttura della
forma-sonata, vengono a dissolversi o comunque a trasformarsi radicalmente.
L'impatto critico
sotteso alla diatriba tra forma e contenuto si incunea nel gioco dei linguaggi
estetici e li raduna in una ricerca unitaria. A buon diritto, Adorno richiama,
all'interno della girandola fra forma e contenuto, il dinamismo della mimesi,
nodo cruciale dell'emersione dell'arte in ogni tempo, ove, a suo dire, si incrociano
lo spleen baudelairiano, che "salva la spontaneità del momento
mimetico", e il magma soffocato e lacerato della produzione di A.
Schönberg che "è mimesi che non si appiana in identità".
La mimesi scarta
l'identità, perché i percorsi dell'espressionismo sprofondano nell'interiorità.
Questo fatto, nel decorso delle procedure estetiche, complica la relazione, mai
per altro pienamente armonizzata, tra forma e contenuto. Il "passaggio minimale"
infatti scruta ogni lieve sfumatura della "necessità interiore". Per
questo non è più possibile accettare la rigida contrapposizione tra forma e
contenuto.
Asserisce ancora
Adorno: "La forma è la coerenza (per quanto antagonistica e frammentaria)
dei prodotti d'artificio mediante la quale ogni artefatto riuscito si separa
dal puramente esistente. L'irriflesso concetto di forma, che riecheggia in
tutto lo strillio del formalismo, contrappone la forma al portato, al composto,
al dipinto, come organizzazione che se ne può separare.
In tal modo essa
appare al pensiero come qualcosa di imposto, di soggettivamente arbitrario,
mentre essa è sostanzialmente lì dove non fa violenza al formato ma sgorga da
esso... Il formato però, il contenuto, non sono oggetti esterni alla forma ma
sono gli impulsi mimetici che tendono a quel mondo di immagini che è la forma.
Gli innumerevoli e dannosi equivoci sul concetto di forma risalgono alla sua
ubiquità che purtroppo porta a chiamare forma ogni e qualunque cosa che
nell'arte vi è di artistico".
L'avvolgente
amplesso di categorie estetiche che balza dall'indagine adorniana ha nel tempo
venato di costante instabilità l'evoluzione del rapporto tra forma e contenuto.
Basti pensare quali
risultanze arreca, nella grande voragine dell'espressionismo, la possibilità
interpretativa, convulsa e rutilante, che scaturisce dal concetto di "...
impulsi mimetici che tendono a quel mondo di immagini che è la forma".
Da Kant in poi la ricerca estetica è segnata dai mille contorcimenti e
dalle mille alchimie che la dinamica accattivante e fascinosa tra
"immagine ed immaginazione" ha provocati e suscitati.
In Kant
particolarmente, prima che nella triade idealistica, e poi in Schopenhauer, il
gioco tra immaginazione produttiva-schema-immagine, come ben sa chi frequenta
opportunamente lo schematismo trascendentale, fa esplodere le giunture arcane
della creatività artistica, poiché aggancia il mistero dell'Essere, nei suoi rimandi
gnoseologico-etico-estetici, ai fondali della sua emergenza. Kant stesso
precisa che il processo dinamico tra immaginazione produttiva-schema-immagine
"è un'arte celata nel profondo dell'anima umana, il cui vero maneggio noi
difficilmente strapperemo mai alla natura per esporlo scopertamente dinanzi
agli occhi".
Su questo
problematico tramestio riflette ancora Adorno: "Tutto ciò che si manifesta
nell'opera d'arte è virtualmente e con lo stesso diritto sia contenuto che
forma, mentre tuttavia la forma resta ciò per cui ciò che si manifesta si
determina e il contenuto resta ciò che si determina".
Ma il sospetto che
l'indagine adorniana si muova ancora all'interno della strategia dialettica
costruita da Hegel costituisce grave remora per la piena comprensione, da parte
del filosofo della Scuola di Francoforte, della prospettiva aperta per gli sviluppi
dell'estetica dalla ricerca operata in campo musicale da Anton Webern, anche
per pensare un nuovo statuto dell'arte dopo i deliri del post-moderno.
La sintesi della
ricerca di Webern si assomma nella categoria della "intensità senza
estensione" il cui vero significato, non per mala grazia s'intende, sfugge
all'analisi di Adorno.Per altro la genesi della "intensità senza estensione"
è già nel kantiano schema trascendentale della qualità.
Eppure, dice D.
Schnebel, "solo con l'aiuto della filosofia di Hegel si può comprendere il
decorso formale del tardo Webern":
Ciò è vero, ove si
consideri che la contemporaneità logico-ontologica dei momenti del sistema
hegeliano, più che alla ripetitività meccanica della triade, è legata al concetto
di tempo concepito come intensità acronica
che raffrena e smorza le rigide asperità della dialettica. Il concetto
di tempo sotteso al sistema va ricavato da una sezione dell'opera hegeliana
troppo spesso trascurata, la
Filosofia della Natura. In essa Hegel definisce il divenire
intuito come "l'Essere che in quanto è, non è, e in quanto non è, è".
Si tratta del tempo concepito come acronica inestesa intensità che non può
essere analogato rigidamente all'attimo nietzschiano dello Zarathustra che
s'avvolge nelle spire dell'eterno ritorno. Il tempo come acronica inestesa
intensità infatti ha in sé il crisma dell'imprevedibilità prospettica. Crisma
poi da Hegel tradito nel corso delle peripezie dialettiche dello Spirito, ma
che, stralciato dagli sviluppi del sistema, richiama poderosamente l'intensità
misteriosa della creatività estetica che coincide con la libertà, perfettamente
già intravista da Kant.
"L'intensità
senza estensione", paradigma strutturale dell'opera di Webern, non costituisce
affatto il dissolvimento del tempo estetico, della musica, dell'arte.
Nelle Sei bagatelle per quartetto d'archi, op. 9 (1913), il miracolo estetico
è già compiuto: ogni nota nella sua singolarità è già un tutto, ma un tutto
dinamico, è una sintesi interiorizzata dei pensieri musicali di Webern: sintesi
che non si espande all'esterno, ma che si dilata dall'interno verso incommensurabili
profondità. Dunque una sintesi che è e non è.
Commenta A.
Schöenberg: "Si consideri qual senso di rinuncia e di moderazione siano
necessari per esprimersi con tanta concisione. Ogni sguardo può prolungarsi in
una poesia, in un poema, ogni sospiro in un romanzo"..
Dei Cinque brani per orchestra op. 10 (1913), nei quali la brevità assurge
a mito di indicibile ed ineffabile comunicazione dell'essere, è stato detto con
arguta impertinenza che sono finiti prima di cominciare.
Nella realtà essi
fanno parte di quella lirica assoluta che, asserisce Alban Berg, "...ha
bisogno di tempo per disvelarsi perché l'inintellegibilità la protegge dalla
luce prematura per non alterarne l'intima crescita".
In Das Augenlicht op. 26 (1935) la rarefazione assoluta del tempo consente
alla parola di elevarsi, per sua stessa
energia, in estranee e strane atmosfere: la parola è concepita in sé come
inestesa intensità acronica al di là dei contenuti, pur ammirevoli, che essa trasmette.
Radi esempi questi
di come in Webern "l'intensità senza estensione" rappresenti davvero
un momento nodale per l'estetica: infatti il turgore della creazione artistica
si concentra totalmente nell'intensità come massima espansione intima della
kandiskiana "necessità interiore". L'"intensità senza
estensione" non è affatto somma di attimi, né attimo che concentra in sé
la totalità dell'Essere, bensì essa è l'Essere che si dilata nell'interiorità
misteriosa della parola.
Non c'è inizio e non
c'è fine. Imprevedibile l'inizio e imprevedibile la fine. Tutto è approdo e
tutto è avvio. Come se il Wanderer schubertiano si fosse contratto in una
dinamica immobilità: nella dinamica immobilità dell'Essere, come prefigurato nella
benjaminiana soglia dell'attesa.
La vita si manifesta
pienamente nell'intensità acronica che è simbolo allusivo, delicato e umbratile
dell'eternità, denso di interiori cosmiche risonanze, in cui l'aurora coincide
col tramonto.
Tutto è luce soffusa, smorzata,
luce prematura, crisalide delicata e sfuggente che non altera, come suggerisce
Alban Berg, l'intima crescita del mistero dell'essere, la sua fresca e perenne
giovinezza.
Ecco perché un sentiero
altamente creativo dell'espressionismo scioglie l'urto fra forma e contenuto
nella nota, nel colore, nella parola.
Nel territorio della poesia
"l'estetica della parola", teorizzata da M. Bachtin, riscopre
l'uomo–persona, la sua coscienza ed apre "il dialogismo abissale della parola".
Oltre i maestri del sospetto, oltre la disseminazione lacerata dell'Io come
accade in Derrida e come accade in Lacan, va riscoperta e recuperata la dimensione
antropologico-ontologica della persona umana.
Afferma infatti M. Bachtin : "La natura dialogica della
coscienza, la natura dialogica della stessa vita umana. L'unica forma adeguata
di espressione verbale di una vita autentica è il dialogo incompibile. La vita
per sua natura è dialogica. Vivere significa partecipare ad un dialogo:
interrogare, ascoltare, rispondere, consentire, etc. In questo dialogo, l'uomo
partecipa tutto e con tutta la vita: con gli occhi, con le labbra, con le mani,
con l'anima, con lo spirito, con tutto il corpo, con gli atti. Egli mette tutto
se stesso nella parola, e questa parola entra nel tessuto dialogico della vita
umana, nel simposio universale... L'uomo con voce integrale entra in un
dialogo". Il dialogo incompibile muove dai fondali inesplorati dell'Essere
e si spinge fino ai suoi abissi mai del tutto esplorabili: per questo è
liberamente imprevedibile.
H.R. Jauss decodifica in
senso ermeneutico il significato della bachtiana "estetica della
parola" e fa risaltare l'importanza della conseguente trasformazione della
dialettica di forma e contenuto nella dialettica antropologica di domanda e
risposta.
H. R. Jauss sgombra
subito il campo da possibili e talvolta deprecabili equivoci: "Se
l'interpretazione di testi letterari non deve scadere in una arbitraria
produzione di differenze (un pericolo al
quale non è sfuggita la teoria dell'intertestualità, oggi di moda in Francia,
nella quale Julia Kristeva ha semplificato la dialogica di Bachtin), tanto il
comprender-si nell'altro del testo quanto l'ordinario intendersi nel discorso e
nella replica altrui sono ancorati ad una precomprensione di ciò che è già
stato detto, compreso e fino ad allora ritenuto valido.
La dialogica di Bachtin,
inoltre, quanto più sottolinea la differenza della plurivocità tra le persone
grammaticali e le istanze del discorso, tanto più sembra dare sempre già per
acquisita –per quel che io posso vedere– la trasparenza della parola poetica,
senza interrogarsi specificamente sulla differenza ermeneutica che corre tra
l'intenzione dell'autore, il senso del testo ed il significato attribuito ogni
volta dal lettore".
E poi H.R. Jauss afferma con
decisione: "In tal modo la dialettica di domanda e risposta diviene uno
strumento genuinamente ermeneutico, atto al superamento dell'orizzonte proprio,
all'acquisizione dell'orizzonte estraneo dell'altro e all'accoglimento del
dialogo con il testo, che può tornare ancora a rispondere soltanto quando viene
nuovamente interrogato... La comprensione estetica può cominciare nel punto in
cui l'immaginario circonda le forme e le configurazioni del mitico con l'aura
della perfezione".
L'immaginario come flusso
ininterrotto di immaginazione produttiva -schema-immagine che avvolge creativamente
le forme, la cui epigenesi affonda nel mistero eterno dell'Essere, accostato
alla benjaminiana "aura della
perfezione", può aleggiare nella poesia soltanto attraverso il baluginare
della parola concepita come prologo ed epilogo dell'esistenza. Dal Logos
archetipo dell'Essere al Logos che probabilmente chiuderà la vicenda dell'universo
entropico e schiuderà l'eternità.
E ciò, oltre ogni
nominalismo, oltre l'estetismo rinsecchito e franto del post-moderno.
Prosegue H. R. Jauss:
"La parola poetica si distingue dal discorso puramente informativo o
funzionale ad uno scopo, nella misura in cui il testo si scioglie dall'intenzione
del suo autore e nello stesso tempo dalla limitazione pragmatica di una situazione
discorsiva, raggiungendo con ciò una autonomia semantica che consente ai destinatari
più tardi di aprire una prospettiva, dall'occasionalità delle situazioni
liriche, sulla pienezza di significato di un mondo visto con occhi
diversi".
Infine, il
"dialogismo abissale della parola" affranca l'arte dall'alienazione
in cui l'aveva confinata la dialettica hegeliana e ne recupera i sensi estetico-ontologico-antropologici
assolutamente necessari in questo nostro tempo definito da Heidegger
"il tempo della povertà che esige i poeti arrischiati".
Nota infatti ancora
Heidegger: "Ma resta il canto che nomina la Terra. Che cos'è questo
canto? In qual modo è possibile ad un mortale? Da dove proviene questo canto?
Fin dove procede nell'abisso?"
In sintonia con la musica di
Webern, la poesia di Cellini è contrazione intensiva dell'essere attraverso l'assoluta
emergenza della parola, contrazione infinita che miracolosamente echeggia ciò
che precede il Big Bang: sprofondamento nell'abisso e salvezza dall'abisso.
La parola-canto di Cellini
non si situa al di qua o al di là del tempo cronologico. Essa incrocia
l'essenzialità intensiva del tempo acronico; come in Webern, più che
puntillismo essa è stratificazione interiorizzata dell'essere.
Nell'intensità inestesa del
tempo acronico vibra il respiro profondo della creazione e si snoda, sublime e
solenne il libero dialogo, talora corrusco e drammatico, tra Dio e l'uomo.
Veramente Cellini "mette
tutto se stesso nella parola e questa parola entra nel tessuto dialogico della
vita umana, nel simposio universale..."
Basti pensare all'affondo
sofferto che il poeta compie nei meandri più cupi della storia pur se in
mirabile sintonia con la discesa nelle più intime fibre dell'interiorità
psico-pneumatica.
Oltre la parola
scarnificata di senso, che come in Cèlan degrada e sprofonda nel suono
disarticolato e subumano o nel silenzio cupo e sordo, la poesia di Cellini ritrova
il senso sacrale della parola e del silenzio.
Anche dopo Auschwitz.
Con lieve, arcana profondità.
Con la "divina
essenzialità" che sgorga dalla "necessità interiore".