sabato 24 novembre 2012









CARMINE DI BIASE[1]
dal Nulla all'Essere totale
  



 Il sentimento dell'essere, la coscienza dell'io che aspira alla totalità, in una espansione dell'anima che si riflette nel divino, come un "approdo" definitivo, per superare l'angoscia del "Nulla", nella condizione umana al di là delle "plaghe remote" dell'universo fino ad approdare in Dio: su questa tela, di dolorosa, limpida cognizione della realtà umana, si svolge l'intero percorso della poesia di Cesare Cellini, in cerca di un Tu infinito, per comunicare il suo dolore, che è amore, e riposare sulle "ginocchia" di Dio.
       Domina, nella limpidezza dell'anima e della parola di Cellini, un desiderio del divino, cui egli attinge nella chiarità dell'anima poetica, nel titolo stesso della prima poesia, nella sete del divino, come la biblica "cerva" che «anela / ai rivi delle acque».
      Un'aspirazione ad un infinito, che parte da lontano: si muove «dalle scogliere/remote/del Mondo», per raggiungere Dio superando l'ultimo sigillo del mistero dell'"oltre". Ma l'anima poetica è trepida, e la via incerta, con il rischio del vuoto assoluto: «Di abisso / in abisso», che il poeta supera con trepido amore, volgendosi a un "Tu": «io approdo / in Te / Signore». Un approdo di fiducia nel divino, nel mistero di una infinita "attesa", in un ribaltamento totale, tra il "nulla" delle cose e l'essere divino: «come dal Nulla / all'Essere totale».
     Una umana attesa, come arcano palpito di "luce", che aspira ad un "incontro" definitivo con Dio stesso, approdo e "ritorno alla casa paterna": di chi avverte la propria esistenza come origine di sé e dell'universo: compresi i sogni del poeta, che sente di appartenere al Padre: come Gesù «figlio Tuo / mio fratello». Come nella seconda poesia, Io voglio ritornare a casa rivolgendosi ad un "Tu"-"Dio" ineffabile ed umano, che è accanto all'uomo ed al poeta. Di chi aspira alla totalità, richiamando l'origine stessa dell'io e dell'universo, di cui si sente partecipe, sin dalla creazione dell'uomo.
     In questa seconda poesia (datata 3 maggio 1993, che richiama, insieme alla prima, la sua ultima Pasqua e il suo ultimo compleanno): «Come Allora / sapientemente/mi rivestisti / della Tua futura carne»: una nascita, che è rinascenza, come palpito di vita nuova, che la fede in Dio e la poesia del divino –che in Cellini è tutt'uno– riporta a nuova luce di amore. Perché il suo essere e sognare era fin dalle origini dell'universo partecipe, anzi "pensiero" del divino "pensiero". Uno dei momenti più suggestivi della poesia del divino in Cesare Cellini: «paziente attendo oggi / pensiero del Tuo pensiero / che dalle plaghe remote / dei nulla temporali / in nome del figlio Tuo / mio fratello / [...]».
     Un sentimento del divino, nel "Tu-Dio" ineffabile, cui il poeta si rivolge, come fratello nel dolore dell'universo, che è amore: da cui sorge la poesia stessa dell'autore che, nella coscienza del mistero dell'io e delle cose, si rivolge, nella trepida "attesa", direttamente a Dio "fratello" e "signore": «perché mi chiami a Te / mio unico Signore».
     Il divino è trasportato nell'umano, che in Cellini si fa più trepido e cosciente, nella consapevolezza della fine della sua "attesa" (muore nel 1993, a 28 anni), che richiama nella voce e nell'anima stessa del giovane poeta un desiderio di amore senza fine. Un morire come rinascita di "vita nuova" in "continuità di vita", dell'uomo e del poeta. Come un figlio docile, che conosce il senso di un dolore infinito, che prende tutti. Dio-padre che ricorda la colpa di Adamo figlio di Dio, come del poeta stesso, per dimenticare insieme la prima colpa dell'uomo e del poeta: entrambe «frutto del dolore». Nella trepida attesa di un "oltre" senza fine, vita della sua vita di fede e di arte in Cellini: che con umana dolcezza aspira a riposare sulle ginocchia di Dio Padre, proprio nella coscienza del «frutto del dolore« non solo dell'essere ma di Dio stesso: «e sulle Tue ginocchia / ci scorderemo insieme / la rivolta di Adamo / e il frutto del dolore». Come si chiude la poesia.
  



[1] Riportiamo qui, a mo' di prefazione dell'ultima silloge poetica di Cesare Cellini, la presentazione scritta nel Maggio del 2003 per la pubblicazione di due poesie: "Come la cerva anela / ai rivi delle acque" e "Io voglio ritornare a casa", in una plaquette commemorativa il decimo anniversario della morte del poeta. Per una più approfondita analisi cfr. C. Di Biase, Novecento Letterario Italiano, Liguori Editore, Napoli, 1997; AA.VV., Cesare Cellini, I silenzi e i rumori del mondo, antologia critica a cura di S. Collura, Liguori Editore, Napoli, 1999.

venerdì 23 novembre 2012


Cinzia Emmi

 
Forza della "parola" e "oltre"
nei frammenti di Cesare Cellini
 
 

L'opera di Cesare Cellini –che è opera poetica e narrativa, diaristica e favolistica– è un immenso "diario", nel senso che l'uomo-artista ha saputo trasfigurare la sua esperienza umana in fantasma poetico, fornendovi un'espressione adeguata della vicenda privata –espressione imprescindibile dal nucleo biografico originario, quantunque distante da esso.
      L'artista si rappresenta dietro i volti di numerosi personaggi –quali quello del cantore, il cui canto fa incarnare parole, quello del profeta, di Cristo della Croce, di Giona e Giobbe, di Paolo-Saulo, del clown e del triste Pierrot, del manichino e di Narciso–, ed anche dietro quell'"io", quel personaggio non protagonista ma monogonista che si esprime in prima persona e che ha voce nei "Frammenti d'un journal intime". Pubblicati nel 1998 per l'impegno appassionato di Sergio Collura, i frammenti del poeta ascolano attraversano un arco temporale abbastanza ampio –dal 25 giugno 1991 al 3 maggio 1993, sei giorni prima della scomparsa.
      Vita e morte è l'endiadi che balza immediatamente alla mente di chi legge i Frammenti: un uomo che è anche un artista va incontro alla morte tentando di varcare il velo che separa l'esistenza dal non essere, "di oltrepassare la soglia della morte senza paura"[1], come Cellini stesso scrive in un pensiero del 12 settembre 1992, e ancora sommessamente ritiene: "ciò alimenta il mio tormento, il continuo chiedermi se esiste un presente oltre il futuro e a cosa o a chi vado incontro, quando questa mia malattia, perduto ogni interesse per me, mi abbandonerà"[2].
      Da queste riflessioni trapela il dilemma sul futuro oltremondano, e come il poeta sia assalito da quell'angoscia e quel dubbio, che egli tenta di confutare attraverso la ricerca di una risposta univoca. Eppure, non lasci perplessi il dubbio sull'esistenza divina, in quanto questo va considerato come parte integrante dell'inquietudine e dell'angoscia di tipo kierkegaardiane, ossia della dimensione di imprevedibilità del sentiero scosceso della fede. Il percorso del cristiano è un continuo divenire, non è un sentiero fiorito, ma impervio, pietroso; e la realizzazione completa della certezza della fede è una conquista, cui si giunge dopo una dialettica interiore nella quale si vive e si soffre la crisi del finito, e si vince la tentazione della ragione che tende a semplificare, a schematizzare –la fede è slancio e deduzione.
      Sgomento primigenio è quello del puer che viene alla vita, e "sgomento nel cuore"[3] è quello dell'uomo che sa di dover morire –in senso possibilistico sempre, in ogni istante–, ma credo sia ancora maggiore lo strazio per chi sa che gli attimi allo squillo della propria ora sono già contati e non sono certo quelli di un Faust, poiché Cellini è l'antagonista dell'eroe ottocentesco. Da qui l'esigenza di abbandonarsi al sogno, di voler riattingere la condizione in cui si può "fluttuare liberi nelle acque primordiali senza la paura e le costrizioni del tempo", come si legge nel frammento del 12 gennaio 1993[4].
      Un uomo così percettivo ed un poeta così compenetrato della purezza d'animo, della sensibilità profonda del fanciullo e della verità di chi ha già troppo vissuto –puro e maturo ad un tempo– non poteva certo rimpiangere di dover andare incontro all'"Oltre", riconoscendoLo già nell'oggi vitale; così Cellini prefigura lo slancio –insieme sicuro e titubante– verso questa nuova dimensione, come esordisce nel frammento del 12 settembre 1992: "vinto dall'ansia, dal desiderio di un possibili Oltre"[5].
      In tal modo la possibilità dell'esistenza dell'"Oltre" diventa quasi certezza o l'unica via con la quale con-fondersi, ed essa si completa con lo stupore in cui affondano le radici del vivente; parallelamente, queste riflessioni sfociano in Sulla via di Damasco –poesia conclusiva di Transenne composta nello stesso periodo, in cui si presentifica l'esperienza del divino. Il poeta scrive: "Silenzioso / il silenzio / s'incrinò / Gli umori / si fecero / intensi / e l'Oltre / improvviso / cessò / d'essere / oltre"[6]
      Il silenzio con cui l'essere alla ricerca del divino si confronta assume la forma della conoscenza, e rende comprensibile il "valore o significato"[7] della propria esistenza Il candore del poeta fanciullo, evidenziato nell'antitesi astuzia/ingenuità del pensiero del 10 ottobre 1991[8], risplende nel suo amore per la giustizia e per la realizzazione di una pace edenica come speranza della fine del male e come conseguente redenzione degli uomini della guerra. Questo sentire si rispecchia in quei pensieri dove si manifesta l'opposizione al totalitarismo, alla guerra e ai «molti Cesari in giro, in Occidente»[9], agli astuti ed agli ipocriti interessati ad ottenere il loro vile scopo, poiché il poeta si sente afflitto per vivere –come si legge nel pensiero del 19 gennaio 1993– in "un tempo sempre orfano, scandito da nascite e morti, da guerre e paci, da felicità improvvise e da dolori covati nel silenzio o nell'urlo della disperazione"[10].
      L'autore sente vivida la distinzione tra il ricco Occidente e la drammatica condizione in cui versa il Terzo Mondo, e soprattutto la individua come contrasto tra opportunismo, egoismo, crudeltà, incomprensione e povertà, fame, sofferenza, dolore, tristezza, morte. Isolato nel suo settore figura l'Occidente, ossia la schiera dei paesi capitalistici che si scavano attorno una trincea di solitudine e di indifferenza, lontani da Dio e procacciatori di guerre, come si registra nel frammento del 20 aprile 1992: "L'Occidente è ammalato di solitudine. Pensa ed agisce come se nulla esistesse intorno a sé, come se il resto del mondo gli fosse nemico. Vinto dalla paura, trova nell'aggressione economica la sua difesa e fa vittime ovunque, imprigionando la vita e Dio e quanto trova sul suo cammino"[11].
      L'indagine nel mondo della sofferenza procede su due versanti: quello degli umili evangelici, impersonati nella società contemporanea dagli abitanti del Terzo Mondo, ai quali il giovane poeta augura una nuova alba in cui possano splendere –come si legge in Sogno di pace– l'arcobaleno "nuovi colori / l'armonia delle lingue / la parità dei diritti / la libertà di natura / l'antica vocazione ad amare"[12], e quello personale, in particolare affrontato nel rapporto malattia/mortalità, in modo da discernere a pieno il senso profondo dell'esistere. Il 12 settembre 1992, l'artista scrive ancora: "da quando sono tornato dall'ospedale non faccio che indagare, mettere in discussione me stesso e le verità acquisite. Come i cani abbandonati, che ripassano l'intera città pur di trovare un avanzo […], anche io non faccio che rimestare le carte dei filosofi per assicurarmi quel tanto di vero per la mente, che mi permetta di oltrepassare la soglia della morte senza paura […] quando questa mia malattia, perduto ogni interesse per me, mi abbandonerà: misero avanzo di un pasto consumato troppo in fretta"[13].
      Nei giorni in cui il corpo perde la sua forza, si indebolisce al ritmo devastante della malattia, Cellini vive nella lotta contro di essa fino alla strenua resa, fino a quando sarà trasformato in un "misero avanzo", cercando di penetrare il mistero della vita e di trovare la prova probante di fronte all'imprevedibile varco. L'uomo ed il poeta scelgono la via dell'obbedienza cristologica e mariana, dell'abbandono al volere divino, lasciando che il dolore si tramuti nella comprensione del vero; e, nel pensiero del 18 gennaio 1993, si legge: "mi sono fatto obbediente. La mia, è un'agonia di amore e di conoscenza, di Dio e di futuro"[14].
      Alternando pensieri di intenso dubbio e drammaticità ad altri in cui traspare il distacco dalle tensioni del momento, come se il suo soffrire si fosse sublimato e lo avesse trasportato nel regno della chiarezza e della maturità, il poeta giunge alla conclusione che la forza della Parola –che è poi sintetizzabile nell'unica Parola che è Dio di cui ogni altra emissione è emanazione– risiede nella chiarezza, nella linearità, nel nitore espressivo di leopardiana memoria, come risalta dal pensiero del 5 novembre 1992: "ma se è vero che l'arte racchiude in sé una qualche verità, se è vero che possiede in sé il valore dell'educare ed è valore essa stessa, io credo che la condizione indispensabile sia la chiarezza formale e la semplicità concettuale che la rendono accessibile a tutti, anche agli ignoranti"[15].
      L'esperienza creativa attraverso cui si realizza l'opera poetica viene concepita come luogo privilegiato in cui portare a compimento il proprio amore per la vita, per gli altri e per le cose, in cui diffondere la Parola, e attraverso cui lanciare la sfida della possibilità di concludere il sogno di pace universale. Nel frammento del 12 ottobre 1992 Cellini palesa la consapevolezza di questa sua concezione, e scrive: "nella mia vita non ho conosciuto amanti più grandi dei poeti, che soffrono e cantano e sgranano gli occhi per comporre, insieme, al di là dei secoli, un inno alla vita"[16].
      Il ruolo del poeta diviene tramite e passaparola dell'amore universale e incondizionato, passando attraverso l'enclave della sofferenza patita per gli altri, e divenendone lui stesso e la sua Parola espressione totale. L'Arte per Cellini racchiude in sé questo nucleo di verità, che la accosta alla Parola divina e che rende significato all'atto poetico, dandogli diverse funzioni: educativa, istruttiva, pedagogica. All'insidia dei tanti perché che affollano la mente del poeta e rendono ansiosa la voglia di conoscenza fino allo spasimo, l'Arte e soprattutto il canto lo aprono alla pienezza della vita –francescanamente sentita–, e gli restituiscono parte del senso esistenziale: "che cosa mi resta, dunque, da fare, se non voglio impazzire? Nulla. Non mi resta da fare proprio nulla, se non cantare: un canto povero e solitario, come povera e solitaria rimane la voglia di amare. Sí, cantare: perché attraverso il canto avverto il senso del mutamento; percorro un cammino, anche se il luogo verso il quale è diretto sfugge al mio sapere: appartiene al sogno, all'Utopia"[17].
      Il più drammatico e commosso tra tutti i frammenti è, a mio avviso, quello dall'incipit "Da quando ho saputo che mi restavano pochi mesi da vivere…"[18], scritto nel Natale 1992 –l'ultimo vissuto dal poeta–, in cui egli intesse un lungo monologo interiore. Cellini svela la necessità di poter riuscire a conoscere le cose della vita e di poter comprendere la giustezza del proprio passato e del proprio operato. Il giovane si prepara serenamente all'attimo più importante dell'esistenza –la propria morte: egli scopre il "privilegio"[19] e la "grazia"[20] di sapere il suo momento mortale, il tempo rimastogli, le ore cui accordare il valore che meritano, e scrive: "conoscere il quando della mia morte, mi ha liberato dalla paura che potesse giungermi nel momento meno propizio […]. Adesso ho tutto il tempo per prepararmi all'incontro. Vivo, infatti, l'attesa della morte come riconciliazione"[21].
      Cercare di discernere come si sia vissuto e capire che le cose fatte siano state quelle giuste, mentre quelle che rimangono ancora saranno la giusta scelta "fra mille"[22], in modo da considerare quello che resta come un dono: questo è quello che il poeta spera di fronte all'incalzante avvicinarsi dell'"ombra / della gelida morte"[23]. Il giovane poeta non sarà mai un impreparato "re che muore" di Ionesco, ma un saggio "custode […] di questa congrua parte di tempo"[24] accordatagli, di questo dono che egli ha saputo tramutare in Parola vitale. Nel punto dello spazio e del tempo in cui Cellini si trova nel Natale 1992, l'istante si dilata per divenire eternità, e soprattutto attraverso l'azione demiurgica dell'Arte egli riesce a demolire il dubbio ed a far sí che il canto si tramuti in Parola e che questa trasformi –in una concatenazione inscindibile verso la trascendenza– "il tempo in eternità; il dolore in gioia interiore; la bruttezza e l'empietà, in bellezza e gioia per i sensi e l'anima"[25].
      Ormai sembra che il dubbio si sia sciolto nella certezza del domani, di quell'alba auspicata tanto tempo prima, poiché –come egli registra qualche giorno precedente la morte– "vorrei però quanto prima arrivare al mio finire, per poi continuare"[26]. Vita e morte si uniscono in un nesso inseparabile: oltre la vita e dopo la morte egli comprende di poter "continuare" a vivere, di poter essere in una diversa forma. Al riguardo, risulta parallela la conclusione del pensiero scritto nel Natale 1992, in cui si prefigura una piena risurrezione prima dell'anima, e poi del corpo e dell'anima nello stato post-apocalittico: "io volgo un pensiero, che è quasi un canto, a quel piccolo spazio che ospiterà il mio corpo, e che sarà unico testimone del mio disfacimento; unico custode, unico arrendevole amore, paziente di attendere il grande ritorno. Mi conforta pensare che quando la parte di tempo, oltre quella accordatami, finirà, questo piccolo spazio saprà restituirmi intero alla vita; e gioirà con me, dimenticando di avermi atteso a lungo"[27].
      Proprio per queste ragioni profondamente credute e acquisite, l'autore è pienamente consapevole di non poter tacere la scoperta della parola vera, della parola che salva[28] e che aiuta gli altri, come scrive l'otto febbraio 1993: "non possiamo ancora restare in silenzio: occorre agire, farsi uno con gli altri, essere parola"[29]. Oltre il tempo, oltre la sofferenza corporea esiste un mistero insondabile che solo la Parola rivelata e la Poesia riescono a svelare, superando il contingente dell'esistenza: "non v'è nulla al mondo che mi soddisfi se non la Poesia. In essa colgo il mistero di me stesso (il "Chi sono") e il mistero di Dio (il "Chi è"). E i due misteri, uniti nella Parola –nella Poesia cioè– diventano tutt'uno: capacità creativa, nonostante il tempo e la morte"[30].
      Secondo un principio di matrice ungarettiana, ricordato nel saggio Il soffio della vita/parola di Giuseppe Savoca[31], Cesare Cellini –scavando nell'universo della Parola grazie alla luce perfetta della Rivelazione– ha saputo scegliere e comprendere, ed ha insegnato a tutti. Se la vita è passaggio, attraversamento per andare nell'"Oltre", la sofferenza del poeta è valsa come monito per saper essere "custodi" del proprio tempo. L'esperienza di vita di Cesare Cellini fa sí che passato e presente si coagulino nella saldezza della scrittura e nella lettura di un eterno presente donato –attraverso la sua Parola– agli altri e a Dio.
 


[1] C. Cellini, Frammenti d’un journal intime, prefazione di R. Minore, a cura di S. Collura, Tifeo, Catania 1998, p. 13.
[2] Ibidem.
[3] C. Cellini, 22 gennaio 1993, in ivi, p. 13.
[4] Ivi, p. 19.
[5] Ivi, p. 13.
[6] C. Cellini, Sulla via di Damasco, in Transenne, Tifeo, Catania 1996, p. 59.
[7] C. Cellini, 18 gennaio 1993, in Frammenti d’un journal intime, cit., p.21.
[8] Ivi, p. 10.
[9] C. Cellini, Natale 1991, in ivi, p. 11.
[10] Ivi, p. 21.
[11] Ivi, p. 12.
[12] C. Cellini, Sogno di pace, in Neacromata, Tifeo, Catania 1995, p. 37.
[13] C. Cellini, Frammenti d’un journal intime, cit., p. 13.
[14] Ivi, p. 21.
[15] Ivi, p. 15.
[16] Ivi, p. 14.
[17] C. Cellini, 12 febbraio 1993, in ivi, p. 27.
[18] Ivi, pp. 16-18.
[19] Ivi, p. 16.
[20] Ibidem.
[21] Ibidem.
[22] Ibidem.
[23] G. Leopardi, Ultimo canto di Saffo, vv. 67-68, in Canti, a cura di G. e D. De Robertis, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1987, p. 138.
[24] C. Cellini, Ftrammenti d’un journal intime, cit., p. 16.
[25] Ivi, p. 17.
[26] Ivi, p. 32.
[27] Ivi, p. 18.
[28] Nel frammento scritto durante il giorno di Pasqua del 1993, si legge: «ritengo la Poesia, la “parola dell’uomo”, e riconosco ad essa la stessa dignità della “parola di Dio”: ambedue salvano» (in ivi, p. 31).
[29] Ivi. p. 25.
[30] C. Cellini, 5 aprile 1993, in ivi, p. 30.
[31] Il critico scrive: «un poeta intimamente ungarettiano qual è Cellini. E dico questo senza alludere a niente di scolastico e di appreso dai libri, bensì a quella matrice ideale di scavo della parola nell’abisso della vita e della morte rappresentata nel nostro Novecento dal poeta dell’Allegria e del Dolore (G. Savoca, Il soffio della vita/parola, in Appendice. Testimonianze critiche ed umane, in ivi, p. 69.

giovedì 22 novembre 2012


Nino Rapisarda

 
La parola-canto di Cesare Cellini come la divina
essenzialità della musica di Anton Webern
"Dall'estetica della forma e del contenuto all'estetica della parola"

"Sono del tutto d'accordo con Lei quando afferma:
dobbiamo convincerci che si va avanti verso l'interiorità"
Anton Webern ad Hildegard Jone
 

 

L'assoluto primato della parola dunque costituisce la cifra più sorprendente del canto di Cesare Cellini, che per tal cagione appare profondamente attuale.
      Il solare nitore che da esso promana, il mirabile manifestarsi della "profondità in superficie", lo fa accostare alla "divina essenzialità" della musica di Anton Webern.
      Il fondamento estetico che lega Webern e Cellini è costituito dalla kandiskiana "necessità interiore".
      L'ermeneutico orizzonte degli eventi annulla la distanza cronologica che intercorre tra i due e li ammanta del barbàglio della contemporaneità estetica.
      La prospettiva che il primato della parola apre supera l'antica diatriba tra estetica della forma ed estetica del contenuto.
      In Teoria Estetica Adorno analizza da par suo la questione a partire dalle inquietanti conseguenze che scaturiscono dall'alienazione dell'arte quale appare nella fatale determinazione dialettica hegeliana.
      Il problema dello statuto dell'arte dopo Hegel (problema chiave che aduggia le vie dell'estetica tra Ottocento e Novecento) è aggravato dall'ulteriore domanda posta da Adorno stesso sulla possibilità prospettica dell'arte dopo Auschwitz.
      Dice Adorno: "La mediazione dell'espressione delle opere d'arte attraverso la loro spiritualizzazione, mediazione che agli albori dell'espressionismo era presente agli esponenti più significativi di tale movimento, implica critica di quel goffo dualismo di forma ed espressione sul quale si orientò sia l'estetica tradizionale, sia anche la coscienza di alcuni artisti genuini".
      Ora, che l'espressionismo, considerato specialmente nel suo aspetto musicale, rappresenti il crocevia munifico ed ineludibile di questo crogiolo estetico è avvalorato dallo specifico ed insistito rimando di Adorno ai maestri della Seconda Scuola di Vienna.
      Con raffinato acume Adorno ravvisa in Alban Berg il maestro del "passaggio minimale", tecnica ma oltre e altro che tecnica, strutturale e funzionale ai meccanismi estetici dell'arte nel primo Novecento.
      Il "passaggio minimale" scaturisce dalle linfe sotterranee del cromatismo wagneriano, strumento sottile che scruta e dipana gli addensamenti più arcani e aggrovigliati della psiche umana ed in cui la forma si converte in contenuto ed il contenuto in forma. E in tal modo e per tal ragione le consumate e consolidate strategie dei modelli formali estetici, fondate da tempo sulla struttura della forma-sonata, vengono a dissolversi o comunque a trasformarsi radicalmente.
      L'impatto critico sotteso alla diatriba tra forma e contenuto si incunea nel gioco dei linguaggi estetici e li raduna in una ricerca unitaria. A buon diritto, Adorno richiama, all'interno della girandola fra forma e contenuto, il dinamismo della mimesi, nodo cruciale dell'emersione dell'arte in ogni tempo, ove, a suo dire, si incrociano lo spleen baudelairiano, che "salva la spontaneità del momento mimetico", e il magma soffocato e lacerato della produzione di A. Schönberg che "è mimesi che non si appiana in identità".
      La mimesi scarta l'identità, perché i percorsi dell'espressionismo sprofondano nell'interiorità. Questo fatto, nel decorso delle procedure estetiche, complica la relazione, mai per altro pienamente armonizzata, tra forma e contenuto. Il "passaggio minimale" infatti scruta ogni lieve sfumatura della "necessità interiore". Per questo non è più possibile accettare la rigida contrapposizione tra forma e contenuto.
      Asserisce ancora Adorno: "La forma è la coerenza (per quanto antagonistica e frammentaria) dei prodotti d'artificio mediante la quale ogni artefatto riuscito si separa dal puramente esistente. L'irriflesso concetto di forma, che riecheggia in tutto lo strillio del formalismo, contrappone la forma al portato, al composto, al dipinto, come organizzazione che se ne può separare.
      In tal modo essa appare al pensiero come qualcosa di imposto, di soggettivamente arbitrario, mentre essa è sostanzialmente lì dove non fa violenza al formato ma sgorga da esso... Il formato però, il contenuto, non sono oggetti esterni alla forma ma sono gli impulsi mimetici che tendono a quel mondo di immagini che è la forma. Gli innumerevoli e dannosi equivoci sul concetto di forma risalgono alla sua ubiquità che purtroppo porta a chiamare forma ogni e qualunque cosa che nell'arte vi è di artistico".
      L'avvolgente amplesso di categorie estetiche che balza dall'indagine adorniana ha nel tempo venato di costante instabilità l'evoluzione del rapporto tra forma e contenuto.
      Basti pensare quali risultanze arreca, nella grande voragine dell'espressionismo, la possibilità interpretativa, convulsa e rutilante, che scaturisce dal concetto di "... impulsi mimetici che tendono a quel mondo di immagini che è la forma".
      Da Kant in poi la ricerca estetica è segnata dai mille contorcimenti e dalle mille alchimie che la dinamica accattivante e fascinosa tra "immagine ed immaginazione" ha provocati e suscitati.
      In Kant particolarmente, prima che nella triade idealistica, e poi in Schopenhauer, il gioco tra immaginazione produttiva-schema-immagine, come ben sa chi frequenta opportunamente lo schematismo trascendentale, fa esplodere le giunture arcane della creatività artistica, poiché aggancia il mistero dell'Essere, nei suoi rimandi gnoseologico-etico-estetici, ai fondali della sua emergenza. Kant stesso precisa che il processo dinamico tra immaginazione produttiva-schema-immagine "è un'arte celata nel profondo dell'anima umana, il cui vero maneggio noi difficilmente strapperemo mai alla natura per esporlo scopertamente dinanzi agli occhi".
      Su questo problematico tramestio riflette ancora Adorno: "Tutto ciò che si manifesta nell'opera d'arte è virtualmente e con lo stesso diritto sia contenuto che forma, mentre tuttavia la forma resta ciò per cui ciò che si manifesta si determina e il contenuto resta ciò che si determina".
      Ma il sospetto che l'indagine adorniana si muova ancora all'interno della strategia dialettica costruita da Hegel costituisce grave remora per la piena comprensione, da parte del filosofo della Scuola di Francoforte, della prospettiva aperta per gli sviluppi dell'estetica dalla ricerca operata in campo musicale da Anton Webern, anche per pensare un nuovo statuto dell'arte dopo i deliri del post-moderno.
      La sintesi della ricerca di Webern si assomma nella categoria della "intensità senza estensione" il cui vero significato, non per mala grazia s'intende, sfugge all'analisi di Adorno.Per altro la genesi della "intensità senza estensione" è già nel kantiano schema trascendentale della qualità.
      Eppure, dice D. Schnebel, "solo con l'aiuto della filosofia di Hegel si può comprendere il decorso formale del tardo Webern":
      Ciò è vero, ove si consideri che la contemporaneità logico-ontologica dei momenti del sistema hegeliano, più che alla ripetitività meccanica della triade, è legata al concetto di tempo concepito come intensità acronica  che raffrena e smorza le rigide asperità della dialettica. Il concetto di tempo sotteso al sistema va ricavato da una sezione dell'opera hegeliana troppo spesso trascurata, la Filosofia della Natura. In essa Hegel definisce il divenire intuito come "l'Essere che in quanto è, non è, e in quanto non è, è". Si tratta del tempo concepito come acronica inestesa intensità che non può essere analogato rigidamente all'attimo nietzschiano dello Zarathustra che s'avvolge nelle spire dell'eterno ritorno. Il tempo come acronica inestesa intensità infatti ha in sé il crisma dell'imprevedibilità prospettica. Crisma poi da Hegel tradito nel corso delle peripezie dialettiche dello Spirito, ma che, stralciato dagli sviluppi del sistema, richiama poderosamente l'intensità misteriosa della creatività estetica che coincide con la libertà, perfettamente già intravista da Kant.
      "L'intensità senza estensione", paradigma strutturale dell'opera di Webern, non costituisce affatto il dissolvimento del tempo estetico, della musica, dell'arte.
      Nelle Sei bagatelle per quartetto d'archi, op. 9 (1913), il miracolo estetico è già compiuto: ogni nota nella sua singolarità è già un tutto, ma un tutto dinamico, è una sintesi interiorizzata dei pensieri musicali di Webern: sintesi che non si espande all'esterno, ma che si dilata dall'interno verso incommensurabili profondità. Dunque una sintesi che è e non è.
      Commenta A. Schöenberg: "Si consideri qual senso di rinuncia e di moderazione siano necessari per esprimersi con tanta concisione. Ogni sguardo può prolungarsi in una poesia, in un poema, ogni sospiro in un romanzo"..
      Dei Cinque brani per orchestra op. 10 (1913), nei quali la brevità assurge a mito di indicibile ed ineffabile comunicazione dell'essere, è stato detto con arguta impertinenza che sono finiti prima di cominciare.
      Nella realtà essi fanno parte di quella lirica assoluta che, asserisce Alban Berg, "...ha bisogno di tempo per disvelarsi perché l'inintellegibilità la protegge dalla luce prematura per non alterarne l'intima crescita".
      In Das Augenlicht op. 26 (1935) la rarefazione assoluta del tempo consente alla parola  di elevarsi, per sua stessa energia, in estranee e strane atmosfere: la parola è concepita in sé come inestesa intensità acronica al di là dei contenuti, pur ammirevoli, che essa trasmette.
      Radi esempi questi di come in Webern "l'intensità senza estensione" rappresenti davvero un momento nodale per l'estetica: infatti il turgore della creazione artistica si concentra totalmente nell'intensità come massima espansione intima della kandiskiana "necessità interiore". L'"intensità senza estensione" non è affatto somma di attimi, né attimo che concentra in sé la totalità dell'Essere, bensì essa è l'Essere che si dilata nell'interiorità misteriosa della parola.
      Non c'è inizio e non c'è fine. Imprevedibile l'inizio e imprevedibile la fine. Tutto è approdo e tutto è avvio. Come se il Wanderer schubertiano si fosse contratto in una dinamica immobilità: nella dinamica immobilità dell'Essere, come prefigurato nella benjaminiana soglia dell'attesa.
      La vita si manifesta pienamente nell'intensità acronica che è simbolo allusivo, delicato e umbratile dell'eternità, denso di interiori cosmiche risonanze, in cui l'aurora coincide col tramonto.
      Tutto è luce soffusa, smorzata, luce prematura, crisalide delicata e sfuggente che non altera, come suggerisce Alban Berg, l'intima crescita del mistero dell'essere, la sua fresca e perenne giovinezza.
      Ecco perché un sentiero altamente creativo dell'espressionismo scioglie l'urto fra forma e contenuto nella nota, nel colore, nella parola.
      Nel territorio della poesia "l'estetica della parola", teorizzata da M. Bachtin, riscopre l'uomo–persona, la sua coscienza ed apre "il dialogismo abissale della parola". Oltre i maestri del sospetto, oltre la disseminazione lacerata dell'Io come accade in Derrida e come accade in Lacan, va riscoperta e recuperata la dimensione antropologico-ontologica della persona umana.
      Afferma infatti  M. Bachtin : "La natura dialogica della coscienza, la natura dialogica della stessa vita umana. L'unica forma adeguata di espressione verbale di una vita autentica è il dialogo incompibile. La vita per sua natura è dialogica. Vivere significa partecipare ad un dialogo: interrogare, ascoltare, rispondere, consentire, etc. In questo dialogo, l'uomo partecipa tutto e con tutta la vita: con gli occhi, con le labbra, con le mani, con l'anima, con lo spirito, con tutto il corpo, con gli atti. Egli mette tutto se stesso nella parola, e questa parola entra nel tessuto dialogico della vita umana, nel simposio universale... L'uomo con voce integrale entra in un dialogo". Il dialogo incompibile muove dai fondali inesplorati dell'Essere e si spinge fino ai suoi abissi mai del tutto esplorabili: per questo è liberamente imprevedibile.
      H.R. Jauss decodifica in senso ermeneutico il significato della bachtiana "estetica della parola" e fa risaltare l'importanza della conseguente trasformazione della dialettica di forma e contenuto nella dialettica antropologica di domanda e risposta.
      H. R. Jauss sgombra subito il campo da possibili e talvolta deprecabili equivoci: "Se l'interpretazione di testi letterari non deve scadere in una arbitraria produzione  di differenze (un pericolo al quale non è sfuggita la teoria dell'intertestualità, oggi di moda in Francia, nella quale Julia Kristeva ha semplificato la dialogica di Bachtin), tanto il comprender-si nell'altro del testo quanto l'ordinario intendersi nel discorso e nella replica altrui sono ancorati ad una precomprensione di ciò che è già stato detto, compreso e fino ad allora ritenuto valido.
      La dialogica di Bachtin, inoltre, quanto più sottolinea la differenza della plurivocità tra le persone grammaticali e le istanze del discorso, tanto più sembra dare sempre già per acquisita –per quel che io posso vedere– la trasparenza della parola poetica, senza interrogarsi specificamente sulla differenza ermeneutica che corre tra l'intenzione dell'autore, il senso del testo ed il significato attribuito ogni volta dal lettore".
      E poi H.R. Jauss afferma con decisione: "In tal modo la dialettica di domanda e risposta diviene uno strumento genuinamente ermeneutico, atto al superamento dell'orizzonte proprio, all'acquisizione dell'orizzonte estraneo dell'altro e all'accoglimento del dialogo con il testo, che può tornare ancora a rispondere soltanto quando viene nuovamente interrogato... La comprensione estetica può cominciare nel punto in cui l'immaginario circonda le forme e le configurazioni del mitico con l'aura della perfezione".
      L'immaginario come flusso ininterrotto di immaginazione produttiva -schema-immagine che avvolge creativamente le forme, la cui epigenesi affonda nel mistero eterno dell'Essere, accostato alla  benjaminiana "aura della perfezione", può aleggiare nella poesia soltanto attraverso il baluginare della parola concepita come prologo ed epilogo dell'esistenza. Dal Logos archetipo dell'Essere al Logos che probabilmente chiuderà la vicenda dell'universo entropico e schiuderà l'eternità.
      E ciò, oltre ogni nominalismo, oltre l'estetismo rinsecchito e franto del post-moderno.
      Prosegue H. R. Jauss: "La parola poetica si distingue dal discorso puramente informativo o funzionale ad uno scopo, nella misura in cui il testo si scioglie dall'intenzione del suo autore e nello stesso tempo dalla limitazione pragmatica di una situazione discorsiva, raggiungendo con ciò una autonomia semantica che consente ai destinatari più tardi di aprire una prospettiva, dall'occasionalità delle situazioni liriche, sulla pienezza di significato di un mondo visto con occhi diversi".
      Infine, il "dialogismo abissale della parola" affranca l'arte dall'alienazione in cui l'aveva confinata la dialettica hegeliana e ne recupera i sensi estetico-ontologico-antropologici assolutamente necessari in questo nostro tempo definito da Heidegger "il tempo della povertà che esige i poeti arrischiati".
      Nota infatti ancora Heidegger: "Ma resta il canto che nomina la Terra. Che cos'è questo canto? In qual modo è possibile ad un mortale? Da dove proviene questo canto? Fin dove procede nell'abisso?"
      In sintonia con la musica di Webern, la poesia di Cellini è contrazione intensiva dell'essere attraverso l'assoluta emergenza della parola, contrazione infinita che miracolosamente echeggia ciò che precede il Big Bang: sprofondamento nell'abisso e salvezza dall'abisso.
      La parola-canto di Cellini non si situa al di qua o al di là del tempo cronologico. Essa incrocia l'essenzialità intensiva del tempo acronico; come in Webern, più che puntillismo essa è stratificazione interiorizzata dell'essere.
      Nell'intensità inestesa del tempo acronico vibra il respiro profondo della creazione e si snoda, sublime e solenne il libero dialogo, talora corrusco e drammatico, tra Dio e l'uomo.
      Veramente Cellini "mette tutto se stesso nella parola e questa parola entra nel tessuto dialogico della vita umana, nel simposio universale..."
      Basti pensare all'affondo sofferto che il poeta compie nei meandri più cupi della storia pur se in mirabile sintonia con la discesa nelle più intime fibre dell'interiorità psico-pneumatica.
      Oltre la parola scarnificata di senso, che come in Cèlan degrada e sprofonda nel suono disarticolato e subumano o nel silenzio cupo e sordo, la poesia di Cellini ritrova il senso sacrale della parola e del silenzio.
      Anche dopo Auschwitz.
      Con lieve, arcana profondità.
      Con la "divina essenzialità" che sgorga dalla "necessità interiore".